Periscopio (globale)
Il tempo di Pomilio
Alla riscoperta di Mario Pomilio (a cento anni dalla nscita): scrittore inquieto e appartato del Novecento che si interrogava sul turbamento dell’uomo di fede che non capisce gli “imperscrutabili disegni del Signore”
Mi sono congedato dall’anno scorso, annus terribilis, con un ricordo di Vittorio Bodini nel cinquantenario della morte e inauguro il 2021 occupandomi brevemente di Mario Pomilio, stavolta nel centenario della nascita, che cade proprio oggi. I due, per quanto diversi fra loro per interessi e mezzi espressivi, sono accomunati se non altro dal fatto di essere stati, ciascuno a suo modo, due grandi scrittori che rischiano continuamente di essere negletti e dimenticati e che pure periodicamente riemergono, come fiumi carsici, per la semplice forza della loro produzione, per averci cioè lasciato delle opere semplicemente ineludibili, Bodini sul versante della poesia e della traduzione, Pomilio su quello della narrativa e del teatro.
Una parentesi. Del ritratto della propria generazione, una serie di articoli e racconti che aveva raccolto nel volume Fedele alle amicizie, il critico Geno Pampaloni, grosso modo coetaneo di Pomilio, scriveva nel 1992 che l’avrebbe ristampato pur intuendo come fosse tra i tanti libri destinati all’oblio, e aggiungeva, con una bella formula, che ciò gli dava in fondo una grande pace, in quanto “l’oblio è il perdono del Tempo”. Non so se al momento di ripubblicare qualche anno fa Il quinto evangelio di Mario Pomilio, la casa editrice L’Orma si sia ispirata a queste parole di Pampaloni, ma di certo l’iniziativa è stata non solo salutare, ma è apparsa subito imprescindibile per aver riportato all’attenzione critica, e sottratto quindi al perdono del Tempo, un testo che aveva avuto un notevole successo, anche di pubblico, al momento della sua uscita nel 1975 − lo stesso anno, si badi, di Horcynus Orca, a cui fu stoltamente contrapposto −, e di cui poi si erano più o meno perse le tracce. In questo caso, insomma, il Tempo non ha nulla da perdonare, e Il quinto evangelio − come del resto quella che mi pare in un certo senso la sua continuazione ideale, Il Natale del 1833 − merita pienamente di non essere dimenticato e di occupare anzi una posizione centrale nella narrativa italiana del Novecento, non poi così parca di capolavori malgrado la discutibile quanto universale convinzione che il nostro sia paese di poeti e vati, e non di narratori.
Incasellato in vari ghetti − l’essere considerato di volta in volta scrittore cattolico, neorealista, conservatore e provinciale −, Pomilio ha dovuto sforzarsi di convincere il mondo che la sua opera non poteva essere ridotta ad alcuna categoria di comodo. Nato a Orsogna, in provincia di Chieti, e cresciuto ad Avezzano, Pomilio si laurea alla Normale di Pisa e si specializza a Bruxelles e Parigi, per poi tornare in Italia e stabilirsi a Napoli, sia pure con una breve parentesi teramana. Uno dei primi romanzi, Il nuovo corso, del 1959, si ispira alla rivolta ungherese. Davvero difficile, tanto per cominciare a demolire qualche facile certezza, considerarlo un provinciale avulso dal mondo.
A Napoli fa parte del gruppo di scrittori (l’amico fraterno Prisco, Rea, Compagnone, Incoronato) che fondano la rivista “Le ragioni narrative” e vi pubblicano saggi e racconti, svolgendo un ruolo di punta nel rilancio della città e della cultura del Meridione tutto. Nel frattempo escono alcuni altri romanzi, il più importante dei quali, anche per l’eco critica che avrà, è senz’altro La compromissione, del 1965, il cui protagonista è il campione di una generazione di pseudorivoluzionari che trovano poi una facile collocazione nella società borghese, disperdendo pigramente le loro energie nell’accettazione dello status quo dell’Italietta democristiana. Il romanzo segna probabilmente l’inizio dell’incomprensione sostanziale da parte della critica progressista che avrebbe accompagnato la successiva parabola di Pomilio, finendo per relegare in disparte e rendere clandestino − complici probabilmente anche certe scelte editoriali che in quegli anni, come del resto ancora oggi, privilegiavano la facilità e la superficialità − uno degli scrittori più innovativi e stimolanti dell’ultimo quarto del secolo scorso.
Ma il vero spartiacque è costituito naturalmente dal Quinto evangelio, summa di una ricerca filologico-letteraria durata dieci anni: alla sua uscita presso Rusconi la sorpresa è grande, in primo luogo per la qualità e l’estrema modernità del libro, che si affranca completamente dalla compattezza formale tradizionale dei precedenti romanzi e ne fa implodere la struttura, e in secondo luogo per l’insperato successo che avrà, non solo grazie ai vari premi conseguiti anche all’estero (il romanzo è subito tradotto nelle maggiori lingue straniere), ma soprattutto per le vendite e il consenso che gli verrà dal pubblico. Non si trattava affatto di un romanzo facile o di agevole lettura − lo stesso Pomilio lo definirà “poco allettante” e “difficile per i palati italiani” −, restava sospeso a metà fra narrativa e saggistica (cosa oggi comune, e a quei tempi quasi impensabile), ma evidentemente toccava alcuni argomenti, primo fra tutti l’incertezza e il dubbio nell’interpretazione dei fatti della vita, che su moltissimi lettori hanno potuto far presa al di là delle più rosee aspettative editoriali.
La cornice del romanzo è relativamente scarna: Pomilio ci racconta la storia di un ufficiale americano, tale Peter Bergin, che nel 1945, alla disfatta del nazismo, si trova a vivere a Colonia in una canonica abbandonata; nella biblioteca della stessa scopre alcune carte che riguarderebbero un fantomatico quinto vangelo. L’ufficiale, che prima della guerra era uno storico, ritornato in patria e restituito alla sua attività professionale decide di proseguire la ricerca, coinvolgendo un manipolo di studenti in una raccolta di indizi che durerà alcuni decenni. Creato alla fine un corposo dossier, lo invia in Vaticano, alla Pontificia Commissione Biblica, perché siano le autorità che giudica competenti a dare un seguito concreto alle sue conclusioni. Gli indizi scoperti da Bergin, ordinati in ordine cronologico, costituiscono i vari capitoli del libro, e la maestria di Pomilio sta nell’aver saputo costruire, con grande abilità mimetica e un perfezionatissimo amore del pastiche, dei documenti pseudostorici che hanno il sapore dell’autenticità e da cui sovente traspaiono tanto versetti evangelici e citazioni dal Vangelo gnostico di Tommaso e dalle epistole paoline quanto, in filigrana, richiami all’attualità e risonanze del presente. In essi ci vengono presentate le vicende di diversi personaggi, realmente esistiti e quindi storici o inventati di sana pianta, impegnati tutti nella ricerca di questo inafferrabile vangelo, ricerca cui spesso dedicano l’intera esistenza.
La risposta da Roma, con tutte le cautele del caso, giungerà qualche mese dopo, ma per Bergin sarà già troppo tardi, in quanto la sua avventura umana, una ricerca scientifica tramutatasi in quest spirituale, si sarà già conclusa. A replicare alle obiezioni vaticane − che significativamente mancano nel testo e di cui il lettore prenderà conoscenza solo gradualmente e in modo indiretto − sarà la segretaria di Bergin, Anne Lee, che mette l’accento sulla missione che Bergin e i suoi studenti si erano dati al di là di ogni dubbio e di ogni esitazione, e invia al prelato un nuovo documento, un testo teatrale, stavolta, che Bergin aveva scritto per sintetizzare e chiarire la portata della sua ricerca. In questo testo, chiamato Il quinto evangelista − che in seguito sarà portato in teatro da Orazio Costa indipendentemente dal romanzo di cui fa parte −, Pomilio scopre definitivamente le carte, identificando nel quinto evangelista la figura stessa di Gesù e individuando nella ricerca della fede e della verità da parte di ciascuno la redazione di un quinto vangelo immateriale di cui ciascuno, con le proprie scelte esistenziali, sarebbe il co-autore. “La luce,” scrive Pomilio, “(…) non rivelerebbe la sua presenza se un ostacolo, interrompendone il cammino, non ne venisse illuminato”. Il quinto vangelo, sintesi degli altri quattro, è allora per così dire la cronaca del superamento dell’ostacolo, dei vari ostacoli che impediscono il procedere dell’uomo nel solco della Provvidenza.
La conclusione di questo “romanzo-enciclopedia” o “opera totale”, com’è stato anche definito, resta aperta; e se non si può certo negare la matrice cattolica, discorrendo come Pomilio fa di fede, di Gesù e di Vangeli (ma anche d’idolatria, e della Chiesa che spesso la fomenta), mediante un’attualizzazione, fra l’altro, dell’intuizione di Renan dell’esperienza esistenziale di Gesù come quinto e superiore vangelo, occorre però chiedersi se questo basti per relegare e confinare Pomilio fra gli scrittori “cattolici” o se il suo ragionamento, che poi riguarda la nostra interazione concreta con la storia, la nostra “compromissione”, per parafrasare il titolo del romanzo che precede il Quinto evangelio, non trascenda le confessioni e le credenze religiose per andare a toccare ben altri nervi, ossia la coesistenza civile in una società troppo spesso distratta e superficiale. Il male, la violenza, il tradimento, la guerra, la falsità, l’opportunistica adesione a un’istituzione (la Chiesa) e al potere che esprime, e per converso le strategie che adottiamo in cerca di uno stile di vita che ci permetta di temperare ed eludere certe pulsioni negative, non riguardano certo solo il credente, ma rimandano a un’idea etica di quella responsabilità che condividiamo in virtù del nostro stesso stare al mondo e che deve indurci alla tentazione d’interrogarci incessantemente su quanto andiamo facendo. Come scrive Pomilio di un suo personaggio, e con questo ci descrive tutti, “era un uomo che nella sua vita aveva conosciuto soltanto i fiumi, ma sapeva che seguendoli avrebbe incontrato il mare”.
Romanzo teologico, da un lato, e sia pure, con l’omaggio evidente all’atmosfera di apertura e speranza creata già da almeno un decennio dal Concilio Vaticano II, e con un’interpretazione del Cattolicesimo come domanda anziché risposta, come traversia del viaggio anziché punto d’arrivo (“il Cristo non ci ha dettato una verità, ci ha lanciati in un’avventura”), in cui peraltro i quattro Vangeli esistenti non sembrano soddisfacenti o sufficienti (“…ciascun Vangelo è una specie di viaggio alla scoperta di Gesù. Nessuno d’essi pretende d’offrire la chiave per intenderlo, delinea piuttosto un itinerario per muovere alla sua scoperta”); ma dall’altro, ricordiamolo, anche romanzo di ricerca storica o di ricerca tout court, apparentemente inesauribile, in cui anelito alla verità e avventura si saldano e si compenetrano.
Nel Natale del 1833, uscito nel 1983, libro diverso dal precedente perché più compatto, ma di significato non minore, e in cui Pomilio mescola con perizia documenti autentici e apocrifi, Alessandro Manzoni è fotografato all’indomani della morte della moglie Enrichetta Blondel, nel pieno di un conflitto di coscienza che lo porta a chiedersi i motivi dell’apparente assenza e dell’implacabile rigore di un Dio nel quale pure vuol credere con tutte le forze. Tenta inutilmente di esprimere il proprio grido di terrore nei settenari di una lirica, Il Natale del 1833, appunto, che resta non a caso incompiuta. In questo testo, definito da Michele Prisco “un’altissima e dolorosa interrogazione sul perché del dolore nel mondo”, ancora una volta Pomilio ci fa registrare il turbamento dell’uomo di fede che non capisce gli imperscrutabili disegni del Signore (“Indifferente ai preghi / doni concedi e neghi…”) e gliene chiede ragione, pur implorandolo al tempo stesso di infondergli quella rassegnazione che non riesce più a provare. Per il cattolico Manzoni sussiste una doppia impasse: non può negare la Provvidenza né accusarla, perché entrambi gli atteggiamenti equivarrebbero a una bestemmia. Occorre allora che il famoso lamento “Perché m’hai fatto questo” che riecheggia nei Salmi sia giustificato dall’essere noi parte di quell’immensa sofferenza dell’umanità che il Figlio ha preso su di sé (e che il Padre non gli ha risparmiato) per condurre l’umanità alla salvazione e alla redenzione finale. Non siamo, come si vede, molto lontani dalle riflessioni di un Celan sull’assenza del Dio ebraico al momento dello sterminio degli ebrei: “o è Dio a volere il dolore dell’uomo,” commenta Pomilio, “o il dolore dell’uomo è lo scacco di Dio.” Ma per Manzoni, aggiunge, e in generale per il credente, il Signore è l’unico porto nel quale, dopo aver tanto navigato, potrà non tanto riparare, quanto fare finalmente un pacificato e pacificante naufragio.