A centro anni dalla nascita
Il talento di Patricia
Invito alla rilettura di Patricia Highsmith, la giallista che inventato Mr. Ripley e il suo «mondo claustrofobico e irrazionale in cui entriamo ogni volta con la sensazione che vi sia un pericolo incombente», come disse Graham Greene
Patricia Highsmith, che martedì 19 gennaio avrebbe compiuto 100 anni, essendo nata quel giorno nel 1921 e scomparsa 4 febbraio 1995, celebre scrittrice di noir, è famosa particolarmente per la creazione di un fortunato personaggio, che non è un detective ma un criminale che riesce sempre a sfuggire alla giustizia, Mr Ripley, protagonista di cinque romanzi e varie riduzioni cinematografiche, con tutti grandi interpreti: Alain Delon (Delitto in pieno sole di René Clément, 1960), Dennis Hopper (L’amico americano di Wim Wenders, 1977), Matt Damon (Il talento di Mr. Ripley di Anthony Minghella, 1999), John Malkovich (Il gioco di Ripley di Liliana Cavani, 2002) e Barry Pepper (Il ritorno di Mr. Ripley di Roger Spottiswoode, 2005). I suoi libri sono ora pubblicati da La Nave di Teseo che manda in libreria in questi giorni Ripley sott’acqua (pp. 400 – 14,00 euro).
Questo 2021, poi, è l’anno in cui verrà pubblicato un volume unico di 650 pagine nato dai suoi quaderni privati di appunti di vita e di lavoro (56 per circa 8000 pagine) ritrovati dopo la sua morte in un armadio. Sarà un libro completo di schizzi e disegni ad acquarello dell’autrice, come hanno raccontato Anna von Planta, editor di lunga data della Highsmith, e Daniel Keel, suo esecutore testamentario.
Il suo Tom Ripley lo ha descritto come un «soave, piacevole e totalmente amorale» omicida e artista della truffa che non viene mai punito per i suoi delitti. È un sofisticato epicureo colto che ha scelto di vivere in Italia, dedicandosi al giardinaggio, la pittura, oppure a studiare lingue, potendo campare di rendita perché gode dell’eredità di Dickie Greenleaf e ha un piccolo reddito dalla Galleria Buckmaster e altro dal padre di sua moglie. Da parte sua Ripley, che non riesce nemmeno a ricordare il numero delle sue vittime, confessa di non essere mai stato seriamente turbato dal senso di colpa, anche se a volte avverte un ”rammarico” almeno per i suoi primi omicidi, a cominciare da quello proprio del suo benefattore Dickie Greenleaf, che definisce ”un terribile errore giovanile” e quello ”stupido e inutile” di Freddie Miles.
Dei suoi quaderni privati ha parlato già Andrew Wilson nella sua biografia della scrittrice Beautiful Shadow del 2003, in cui ricostruiva «ogni attimo della sua vita, ogni pensiero, e paura, e malattia, e depressione e follia, ogni sentimento, e amore, e rancore – come ha scritto Natalia Aspesi recensendolo – ogni preferenza letteraria o sociopolitica (dal comunismo a Perrot, antifascista e razzista, liberale, anarchica e socialdemocratica, un po’ antisemita, molto antifemminista, e come membro di Amnesty International, pro Palestina contro Israele)». Personaggio insomma complicato e difficile, Patricia Highsmith (pseudonimo di Mary Patricia Plangman) americana, ma che si traferì in Europa dopo i 40 anni, visse in un paesino in Svizzera sino alla morte, appartata e lontana dai riflettori della notorietà, rifiutando contatti con i media e arrivando a proibire la pubblicazione di un profilo biografico sul risvolto dei suoi libri.
Figlia di genitori divorziati, venne allevata in gran parte dalla nonna materna che avrà su di lei molta influenza mentre a scuola mostrò subito un grande talento per la pittura e la scultura, ma la sua intima vocazione era scrivere. Finto il college iniziò a lavorare sceneggiando fumetti e scrivendo il suo primo libro, Sconosciuti in treno (anche questo in arrivo per La Nave di Teseo, pp. 386 – 14,00 euro), che però riuscirà a pubblicare solo nel 1950. Alfred Hitchcock ne trarrà il soggetto per il film L’altro uomo. Quel primo romanzo è la storia di due uomini, un architetto e uno psicopatico, che si incontrano su un treno e decidono di scambiarsi gli omicidi da compiere. Un esordio che ben rappresenta il paradigma dal quale nasceranno i suoi 22 romanzi e 9 raccolte di racconti: due mondi che si incontrano e in cui i confini che separano il normale dall’anormale, il bene dal male, hanno contorni molto evanescenti. La Highsmith non ricorre mai a toni consolatori o rassicuranti, evita sfumature romantiche, senza per questo poter essere assimilata ai duri dell’hard boiled, perché nelle vicende a sfondo psicologico che narra gioca su un’ambiguità di fondo a proposito di quella che viene considerata la normalità: quella vera è quella che appare come deformata, tutta compromessi e bassezze, mentre è invece quella che consideriamo la normalità quotidianità ad avere la sua profonda crepa noir. Secondo Graham Greene, «ha creato un mondo tutto suo, un mondo claustrofobico e irrazionale in cui entriamo ogni volta con la sensazione che vi sia un pericolo incombente, con la testa mezza girata all’indietro, perfino con una certa riluttanza, poiché sono piaceri crudeli quelli che ci apprestiamo a provare, finché a un certo punto la trappola è scattata e non possiamo più ritirarci».