Luca Fortis
Una mostra a Milano

L’arte secondo Daverio

La Cittadella degli Archivi rende omaggio a Philippe Daverio, critico d'arte, animatore culturale, ex assessore della città. Ce ne parla Francesco Martelli: «Era un uomo che sapeva coniugare in maniera unica l'arte alta e quella bassa»

La Cittadella degli Archivi di Milano dedica in questi giorni un’interessante mostra a Philippe Daverio, grande critico d’arte e divulgatore da poco scomparso. Ne parliamo con il Professor Francesco Martelli, Sovrintendente Archivistico che dirige la Cittadella. Martelli oltre che dirigere l’archivio milanese, è docente di Archivistica presso il Master in Digital Humanities dell’Università degli Studi di Milano.

Com’è nata l’idea di una mostra su Philippe Daverio?

Essenzialmente dalla sua scomparsa: trattandosi di una persona che conoscevo molto bene, mi ha profondamente colpito. In Cittadella organizziamo periodicamente delle mostre dedicate alla storia di Milano attraverso gli archivi. Essendo stato Daverio assessore comunale alla cultura negli anni 90, ci è sembrato quasi naturale ricordarlo attraverso le carte d’archivio di quel periodo. 

Quali sono i documenti più interessanti che avete in mostra?

Certamente il verbale di collaudo dei lavori del Teatro Strehler, che fu sì inaugurato nel gennaio del 1998, ma la cui accelerazione e conclusione dei lavori va riconosciuta a Daverio, che peraltro di Strehler era amico. 

Poi ci sono i progetti di BBPR (Belgioioso Banfi Peressuti Rogers)e le foto inedite del restauro di Palazzo Reale, con tanto di annotazioni a matita di Philippe, che proprio grazie a Daverio fu trasformato nel polo espositivo internazionale che è oggi. 

Abbiamo trovato poi la lettera con cui Bernardo Caprotti, patron di Esselunga, decise, coinvolto da Daverio, di finanziare con oltre 3 miliardi di lire l’intera ricostruzione del PAC dopo la strage mafiosa del 93. Un’altra amicizia, la loro, che durò una vita. Ci sono anche delle foto inedite dell’inaugurazione del PAC con Leo Castelli, cui fu dedicata la mostra di riapertura. 

Mi racconti una storia in particolare che hai scoperto grazie ai documenti in mostra?

Quella del PAC e del rapporto con Caprotti. Quando finalmente arrivò il miliardo promesso dal Ministero per la ricostruzione, il PAC ero bello che inaugurato e Daverio donò quei soldi a delle scuole del Sud. 

E poi certamente la prima mostra sugli Impressionisti a Palazzo Reale, che fu la prima mostra “blockbuster” in Italia, con 500.000 visitatori e il coinvolgimento di sponsor privati che cambiarono la storia delle esposizioni in Italia. 

La mostra su Daverio è stata possibile grazie a documenti che avevate già in archivio o grazie a prestiti della famiglia e di istituzioni museali?

Oltre ai nostri documenti d’archivio, abbiamo ottenuto in prestito dal PAC e da Palazzo Reale immagini e planimetrie. Inoltre la famiglia Daverio ci ha concesso un video in esclusiva, uno degli ultimi registrato da Philippe durante il lockdown, e dei suoi oggetti personali, un abito, una camicia e un papillon rigorosamente rosa. Un omaggio a quel suo stile inconfondibile che caratterizza tutta la grafica della mostra, che per ora, causa coronavirus, è visitabile solo online sul sito www.philippedaverioamilano.it

Cosa ti ha colpito di più del lavoro di Daverio?

L’intento principale era quello di cercare negli anni dell’assessorato le tracce di quello che poi sarebbe stato il Daverio arcinoto di Passepartout. Un uomo che sapeva coniugare in maniera unica l’arte alta e quella bassa, come diceva lui, il nazional popolare con la cultura di nicchia. 

La mostra è a cura di Nicola Manna, che è anche uno studente del Master in Digital Humanities che noi organizziamo con Il dipartimento di studi storici dell’Università degli Studi di Milano. Una proficua collaborazione che continua ormai da anni.

È importante archiviare i documenti delle personalità che hanno lasciato un’impronta a Milano, anche con la costruzione di un rapporto di fiducia con gli eredi. Un percorso che non sempre le istituzioni hanno saputo fare. Che cosa ne pensi?

Certamente troppe istituzioni hanno negli anni trascurato gli archivi, non solo quelli di privati importanti ma addirittura i propri. In questo devo dire che il Comune di Milano, soprattutto grazie all’assessore Roberta Cocco, ha fatto degli enormi passi avanti. Ma bisogna anche ammettere che gli eredi spesso rendono questo rapporto molto difficile. Ci sono eredità archivistiche estremamente redditizie e gelosamente inaccessibili, altre che invece comportano troppi costi di mantenimento e allora si cerca l’aiuto delle istituzioni, che per lo più finisce per essere una consegna in blocco senza altri scopi, lasciando tutto il lavoro di divulgazione alle istituzioni. 

La Cittadella degli Archivi di Milano è anche un luogo vivo, che si propone di essere anche uno spazio culturale aperto alla città. Un percorso non scontato?

Non solo non scontato ma turbolento e molto difficile, soprattutto nei nostri primi anni in Cittadella. È stato molto difficile far capire che un archivio è a tutti gli effetti un’istituzione culturale, che deve fare divulgazione. Non è un’opzione del fine settimana, senza divulgazione e studio l’archivio diventa un deposito, quasi una cantina e smette anche di funzionare dal punto di vista amministrativo. 

Ha poi la caratteristica di essere necessariamente un luogo fisico o non virtuale. Premesso che ormai è imprescindibile avere una forte connotazione digitale, sono curioso di vedere se, fare cultura in un luogo fisico e di memoria nell’era post covid, sarà un valore aggiunto o qualcosa cui dovremo rinunciare. Ma solo se obbligati ovviamente!

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