Paolo Petroni
Il film tv disponibile su Raiplay

Un Eduardo sbagliato

La versione cinetelevisiva di Edoardo De Angelis di “Natale in casa Cupiello” di Eduardo tradisce completamente il senso un'opera dedicata all'ipocrisia di una società marcia. Malgrado l'impegno degli attori

Un testo teatrale nasce per essere interpretato e, se riesce a parlare alla gente al di là del momento in cui è nato, come ogni opera d’arte viene vista, letta, recitata in modo continuamente nuovo e riflessa nell’essere e tempo dello spettatore. Questo per liberarci subito della banalità di affermare che Natale in casa Cupiello realizzato dallo stesso Eduardo è una sorta di assoluto e che chiunque dopo si avvicini a quell’opera lo farà invano. Tanto è vero che di versioni di questa tragica commedia col suo destino natalizio (è oramai per noi un po’ quel che il Canto di Natale di Dickens è per il mondo anglosassone) se ne sono avute altre pregevoli interpretazioni, pochissime in realtà, arrivando sino alla rilettura e scomposizione di Antonio Latella o a Fausto Russo Alesi, che ne recita una fedele riscrittura per assolo che gli cuce addosso tutti i personaggi.

Allora, se complessivamente non ci è piaciuto il film-tv Natale in casa Cupiello con la regia di Edoardo De Angelis (che firma anche la sceneggiatura con Massimo Gaudioso), non è per tali ragioni. Andato in onda alla viglia di queste feste su Rai1 e ora disponibile su Raiplay (assieme a quello di Eduardo), ha per protagonisti Sergio Castellitto e Adriano Pantaleo nei panni del padre Lucariello e del figlio Nennillo, assieme al fratello di Tony Laudadio, la moglie e madre di Marina Confalone, la figlia di Pina Turco, suo marito Antonio Milo, il suo amante Alessio Lapice, con le scene di Carmine Guarino. Non ci è piaciuto sin dall’inizio, dal contenitore, con quella piazzetta fin nella neve svolazzante e gli zampognari e quella lunga passeggiata della moglie per entrare in casa attraverso un finto colore napoletano, con le lavandaie e persino una “signorina” discinta con militare americano, a indicare forse subito che l’azione è spostata di due decenni, dagli anni ’30 al dopoguerra, al 1950 secondo le note di regia.

Ora, la forza di questo testo sta nella metafora del presepe, il quell’ordine costituto, fisso e armonico di un insieme di personaggi cui si dedica con passione e praticamente si rifugia Luca per non vedere tutto quello che gli sta attorno, la vita con la sua mobilità e imprevedibilità, tanto che la famiglia, che lui si ostina a riunire attorno al presepe e alla tavola per celebrare il Natale, volendola unita e serena, in realtà sta implodendo e cova la tragedia. L’assurda comicità del naturale contrasto padre-figlio, che con protervia a dispetto gli dice «Nun me piace ‘o presepe», o il teatrino con la moglie e quello sui furti col fratello (di cui il nipote si è venduto scarpe e cappotto, ma non sarà l’unica ruberia), acquista via via note grottesche che introducono il dramma, in quel gran gioco esistenziale inscindibile di commedia e tragedia, in cui Eduardo era maestro.

E se una lettura è quella appunto famigliare, come nucleo esemplare in un gioco di sentimenti e illusioni con lontane ascendenze cechoviane, universali, un’altra, complementare, è quella sociale che rimandava negli anni ’30 all’aggrapparsi a un ordine finto e oramai finito nello scatafascio che la storia (e il fascismo) stavano preparando. Una realtà ben diversa negli anni ’50, in un paese ancora ferito ma positivo che invece sta rinascendo ed è alla vigilia del boom socio-economico, per cui De Angelis avrebbe potuto e dovuto ambientare tutto facilmente, con meno timore, in un periodo più significativo e consono alla forza del personaggio e del testo, così svuotato di parte del suo valore simbolico.   

Luca, quando scopre il disgregarsi della sua famiglia, l’essere tutti contro tutti e il tradimento e l’abbandono del marito in quella della figlia, davanti alla rivelazione della generale sofferenza e del crollo delle sue illusioni attorno alla tavola preparata per la festa, è come se fuggisse ancora la realtà grazie a un colpo apoplettico che lo rende semincosciente. Il medico arrivato al suo capezzale potrà solo certificare che non c’è proprio speranza di salvezza, mentre Luca nel letto confonde persone e cose e cerca così sino alla fine di ricomporre i cocci famigliari oramai irrecuperabili, con l’unica consolazione di Nennillo che, interrogato in extremis ancora una volta se gli piaccia il presepe, finalmente, con un groppo alla gola, sussurra il suo «Sì», a certificare comunque un affetto vero al di là delle apparenze quotidiane.

A questo punto l’analisi dello spettatore potrebbe soffermarsi su vari aspetti del film, coglierne anche alcuni particolari positivi, ma a prevalere è purtroppo il contesto e la struttura generale col suo pensare e tentar di essere cinema, ma senza voler abbandonare e tradire il teatro, così, per mancanza di coraggio o di coscienza dello specifico dei generi, da non essere più né l’uno, né l’altro. Si perde la sintesi icastica e lo stretto concatenarsi del dialogo coi fatti, anche perché la maggioranza delle scene vengono allungate con altre battute per cercare la durata di un film, che non vive, da parte sua, della libertà di movimento e invenzione visiva che gli è propria, tra l’altro imprigionato nel mantenimento sostanziale dell’unità di spazio e tempo scenico, con degli esterni che non riescono ad avere una propria implicita necessità di senso e strutturale. A perdersi è quindi subito il ritmo dello spettacolo, che si rallenta e annacqua, per non riuscire a tradurre e liberare in visione e discorso filmico quel che è del testo teatrale e del pathos eduardiano.  

In questa situazione gli ottimi attori fanno ovviamente fatica a trovare la verità dei propri personaggi e la regia, pur evitando fortunatamente il facile macchiettismo che ci si poteva aspettare dopo l’inicipit, coglie più un certo sentimentalismo di fondo eduardiano in cui ogni dramma si edulcora  senza la necessaria malinconia poetica e porta tutto e tutti a farsi solo contorno, ruotando attorno al ben caratterizzato Luca di Castellitto, sempre molto serio e compreso, risultando più sornione che capace di andare a fondo del risvolto comico sino a mutarlo nello strazio di un dramma interiore che coinvolga lo spettatore.

Insomma, un’occasione persa probabilmente per paura, proprio non volendo o sapendo davvero sottrarsi all’ombra della messinscena e recita di Eduardo. Un vero peccato.

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