A proposito di "Dominio"
Religione del denaro
Marco D'Eramo analizza il percorso che ha trasformato i principi del liberismo economico in una vera e propria ideologia indiscutibile. L'unica che oggi si impone ovunque, dettando etica e comportamenti. A vantaggio di pochi, ovviamente
La domanda sorge spontanea appena terminata la lettura di Dominio, il più recente lavoro di Marco D’Eramo. Una scudisciata a coscienze da tempo sonnacchiose. Quale Gorgone mai ci ha impietriti e impedito di scendere in strada per dar vita a un nuovo 1789, intonando furenti Ah! ça ira, ça ira ça ira ….?
Perché le cose stanno così. Con maggior vigore nell’ultimo cinquantennio il neoliberismo ha conquistato terreno, si è insediato vittoriosamente nelle cittadelle universitarie, si è imposto nel discorso pubblico, ha pressoché acquisito lo status di pensiero unico, che quasi nessuno osa contraddire. Al punto di fare dell’economia non un aspetto tra i tanti della dialettica sociale, ma il fulcro, il senso stesso dell’esistenza umana. Elevandola quindi al rango di ontologia. La business onthology domina, trionfa. Tutto è considerato sotto il profilo economico; gli stessi individui non sono che capitale umano: ognuno può investire se stesso e trarne un profitto.
Una rivoluzione epistemologica, la definisce D’Eramo. Che con metodo e ampia documentazione ne ripercorre genesi e sviluppo. Insomma, in quella che un tempo si chiamava lotta di classe, i detentori della ricchezza e del potere, i capitalisti e le loro truppe, hanno saputo muoversi con più sagacia degli avversari. Impadronendosi proprio dell’arma più efficace che questi possedevano: le idee.
Ideologia è un termine dalle molte vite e dai molteplici significati. Oggi, mentre il vaff e altre piacevolezze lessicali sono moneta corrente, un segno di distinzione nei salotti mediatici, è tra le rare voci relegate nella sfera del turpiloquio. Soprattutto tra le file di quanti dovrebbero schierarsi sul fronte del pensiero critico, rivale irriducibile di una società iniqua. Ma proprio l’ideologia è diventata l’arma vincente dei detentori del potere, della ricchezza. Un lavoro di lunga lena. Che ha il suo cemento teorico nella fobia dello stato, nell’imperativo di tenerlo a debita distanza dalle vicende economiche, di snellirlo fino a renderlo un guscio vuoto. E i suoi primi battaglioni nelle fondazioni, i think tank, apparsi già nei primi anni del secolo scorso, e poi proliferati, destinati a produrre idee e disseminarle sul pianeta per mettere al sicuro, e rendere più potente e pervasivo, il Mercato.
La necessità vitale di imbracciare le armi della critica ha prodotto una counter-intellighentsia, una contro-intellighentsia (definizione di William E. Simon, tra altri incarichi anche ministro del Tesoro con Richard Nixon). Con intenti chiarissimi. Come scriveva Lewis F. Powell, grande difensore dei signori del tabacco, nonché membro del CdA della Philip Morris: «Il padronato deve imparare la lezione appresa tanto tempo fa dal movimento operaio (… ) il potere politico è necessario (…) quando necessario, deve essere usato aggressivamente e con determinazione – senza imbarazzo e reticenza».
La counter-intelighentsia presenta una significativa assonanza con la counterinsurgency coniata in campo militare, la controguerriglia, che ha la sua bibbia nel manuale per i marines statunitensi, firmato dai generali David Petraeus e James Ames. Dove il ruolo centrale dell’ideologia è sottolineato, così come le narrative, «schema organizzato espresso in forma di storia», che: «… sono i mezzi attraverso cui le ideologie sono espresse e assorbite dagli individui in una società…».
Davvero si respira aria di guerra. Condotta senza risparmio di mezzi ed energie in tutti i campi. Pionieri della crociata neoliberista, sul versante “innocuo” della teoria, gli economisti austriaci Ludwig von Mises e Friedrik August von Hayek, nemici acerrimi dell’intervento statale e numi tutelari dei Chicago boys, la punta di diamante del pensiero neoliberista, che avrebbe trovato la sua eclatante consacrazione nel golpe cileno del 1973.
Mentre, “con aggressività e determinazione” alla barra del potere politico si affermavano personaggi come Margaret Thatcher, recisa nell’affermare che «non c’è una cosa come la società», Ronald Reagan e, in tempi recentissimi, anche se in procinto di passare la mano, un protagonista sconcertante come Donald Trump.
E dalle cattedre universitarie, con sporadiche eccezioni, si sono sempre sfornate confortanti favolette per convincere che sotto il cielo dell’economia indisturbata tutto va per il meglio. Dalla mano invisibile di Adam Smith, declinazione laica della Provvidenza cristiana, passando per l’utilità marginale, una robinsonata per dirla con Karl Marx, alle meraviglie del trickle down effect, l’effetto a cascata per cui l’abbondanza di ricchezza dei pochissimi dovrebbe tradursi, attraverso il pozzo di san Patrizio degli investimenti, in maggior benessere per tutti.
Magie che finora sono restate confinate nei manuali. La realtà fornisce altre, deprimenti cifre. Il divario tra ricchi e poveri si amplia a dismisura. In Italia, che di certo non sta messa peggio di altri paesi, il Censis, sono dati di questi giorni, nel terzo trimestre del 2020 conteggia, anche con il concorso della pandemia, mezzo milione di disoccupati in più tra giovani e donne, e rileva che «cinque milioni di persone che ruotavano attorno ai servizi… hanno finito per inabissarsi senza rumore», con la società «sfibrata dallo spettro del declassamento sociale, in cui il 50,3% dei giovani vive in una condizione socio-economica peggiore di quella vissuta dai genitori alla loro età».
Questo in un paese dove l’evasione fiscale galoppa e ruba centinaia di miliardi alle casse pubbliche; ma basta un timido accenno all’imposta patrimoniale per provocare il delirium tremens nei detentori di redditi stellari e nei loro avatar politici.
Al di là delle favolette, il mercato, in maniera spudorata nella versione neoliberista, produce ingiustizia e si bea del proprio cinismo. Anche l’amministrazione della legge è ridotta a puro calcolo economico: si stima fino a che punto sia conveniente commettere un reato, così come, al fine di massimizzare la produzione, si calcola il valore ottimale dell’inquinamento, che comunque può sempre essere esportato a costi ridotti nei paesi meno sviluppati.
Grazie all’arma dell’ideologia, il neoliberismo ha fatto trapelare la convinzione che tutto quanto accade sia naturale e non possa andare diversamente. Relegando la stragrande maggioranza degli attori sociali a meri consumatori, soddisfatti della loro condizione. Una vittoria consolidata dalla «rappresentazione che il capitale si fa e ci fa dei rapporti dell’uomo e del mondo», scriveva, ripreso da D’Eramo, Roland Barthes nel suo Miti d’oggi cinquant’anni fa. Più attuale, sempre citato da D’Eramo, David Graeber afferma: «La libertà economica, per la maggior parte di noi, è stata ridotta al diritto di comprare un pezzetto della nostra subordinazione permanente».
Un panorama su cui svetta la stella polare del debito, altra sofisticata “arma di fine mondo” del capitalismo, contro cui già puntava la sua lungimirante attenzione Marx. Crescente, e vincolante, per la gran massa delle persone. Soffocante, iugulatorio per gli stati, come si è potuto vedere nel caso della Grecia.
Il trionfante mercato libero presenta i caratteri tipici di una fede. D’Eramo ricorda che già Marx parlava della merce come feticcio. Il filosofo Ernst Bloch avrebbe esplicitamente indicato nel capitalismo una religione, con al centro la Chiesa di Mammon. E Walter Benjamin lo definisce una religione di culto, forse la più estrema, imperniata sul perverso meccanismo colpevolizzante/indebitante: il debitore è un peccatore che ha una colpa da espiare. Ci sarebbe poco da stare allegri. Per fortuna l’imperturbabile Humphrey Bogart da Casablanca (intesa come film) continua a ricordarci attraverso una scena memorabile (a quanto si racconta, un indiretto omaggio al genio anarchico del matematico Renato Caccioppoli, che per primo l’interpretò in una birreria di Napoli, in mezzo alla teppaglia nazifascista) che la Marsigliese è sempre il più bell’inno del pianeta.
Accanto al titolo: «Power house mechanic working on steam pump», celebre foto di Lewis Wickes Hine