Periscopio (globale)
Lo spagnolo di Lecce
Ritratto di Vittorio Bodini, storico traduttore di Don Chisciotte che ha fatto conoscere a una intera generazione la poesia spagnola: da Cervantes a Rafael Alberti, da Quevedo a García Lorca, dai surrealisti a Salinas e Moreno Villa
Una cosa è certa: senza la meteorica comparsa nel mondo editoriale, a partire dai primi anni Cinquanta, di Vittorio Bodini, oggi il lettore italiano percepirebbe in modo molto diverso, e sicuramente di gran lunga più povero, la letteratura spagnola nel suo insieme, e avrebbe una visione molto meno acuta di quanto è avvenuto e avviene in termini non solo squisitamente letterari, ma anche storico-culturali, in quel paese. È infatti in gran parte grazie alle sue traduzioni, da Cervantes a Rafael Alberti, da Quevedo a García Lorca, dai poeti surrealisti a Salinas e Moreno Villa, che generazioni di lettori, non necessariamente specialisti della materia, hanno trovato il giusto accesso a un’area culturale di enorme ricchezza e complessità.
Bodini, il Salento della giovinezza e la Spagna: una triangolazione perfetta, nata in omaggio a quell’intreccio di inopinate combinazioni che chiamiamo destino. Eppure, inizialmente nulla sembrava spingerlo in direzione della penisola iberica. Nato nel 1914 a Bari, ma leccese fin dai primi mesi di vita, dopo la morte precoce del padre e il nuovo matrimonio della giovane madre è allevato dal nonno materno, uomo di notevole cultura, che a Lecce dirigeva la biblioteca provinciale. Nel 1940, perso da qualche anno anche il nonno, si laurea in lettere, con una tesi sul giurista e filosofo Romagnosi, a Firenze, dove frequenta l’ambiente poetico dell’epoca, stringendo amicizie importanti con Parronchi, Bigongiari, Montale e Luzi e frequentando l’ambiente che gravitava intorno alla rivista Giubbe Rosse. Torna poi a Lecce, città verso la quale per tutta la vita nutrirà un sentimento ambivalente e dove con l’amico (e conterraneo) Oreste Macrì – il primo a mettere Bodini in contatto con la poesia spagnola, prima fra tutte quella di Machado –, collabora a diverse riviste e aderisce al movimento Giustizia e libertà e al Partito d’azione.
La svolta personale avviene nel novembre 1946, quando Bodini si trasferisce appunto in Spagna come ricercatore e lettore d’italiano. Vi vivrà stabilmente per meno di quattro anni, ma l’esperienza sarà di quelle irripetibili, che lasciano il segno, anche perché vissuta – soprattutto nella seconda fase, quando è libero anche dagli impegni universitari e si reinventa come antiquario e perfino, pare, contrabbandiere – in completa libertà, partecipando alle tertulias e frequentando i caffè delle avanguardie madrilene. Quello che poi Macrì definirà un rapporto “carnale” con il paese d’adozione è spiegato da Bodini stesso (in uno dei reportage del Corriere spagnolo) in questi termini: “Io sono quasi spagnolo: sono un italiano del Sud, e questa [cioè Madrid] dovrebbe essere la vera capitale del mio paese. Vi è in noi la medesima combinazione di follia e di realismo, le stese inerzie febbrili, lo stesso bianco della calce contro il cielo.” Retrospettivamente, tenendo conto della futura attività di traduttore, l’esperienza spagnola dell’immediato dopoguerra è stata ovviamente fondamentale, anche perché gli ha consentito di entrare in contatto con i maggiori poeti della generazione del ’27, molti dei quali sarebbero diventati negli anni amici fraterni e compagni d’avventura.
Tornato ancora una volta a Lecce, nel 1952 otterrà finalmente un incarico universitario (a Bari) e pubblicherà un primo libro di poesie, La luna dei Borboni. Ci vorranno poi sedici anni per passare di ruolo e ottenere una cattedra (a Pescara), mentre sul fronte poetico nel 1956 uscirà Dopo la luna, pubblicato da Leonardo Sciascia – con il quale Bodini avrebbe voluto realizzare una collana “arabo-ispanica” di libri dedicati ad autori del Mediterraneo che tuttavia non si farà mai –, e nel 1967, presso Scheiwiller, l’ultimo volumetto, dal titolo Metamor. Nel 1960, intanto, Bodini si era trasferito a Roma.
Alla sua morte, giusto cinquant’anni fa, il 19 dicembre del 1970, la produzione di Bodini, in fondo compressa in appena vent’anni di febbrile attività, appariva dunque a prima vista profondamente sbilanciata: tre volumetti di poesia più qualche inedito a fronte di una messe di traduzioni, molte delle quali estremamente impegnative. Basti citare il teatro di Lorca (1952), il Don Chisciotte (1957), l’antologia dedicata ai poeti surrealisti (1964), i Sonetti amorosi e morali e Il pitocco di Quevedo (1965 e 1967), e poi Larrea, Alberti, Moreno Villa, Aleixandre, Salinas, Goytisolo, Neruda, gli Intermezzi di Cervantes e il Lazarillo (senza che la lista sia peraltro esaustiva). Possiamo dire che è in gran parte grazie a Bodini che i capolavori della letteratura spagnola, altrimenti, e fino a quel momento, negletti dall’editoria, rientrano nuovamente a pieno diritto, per il lettore italiano, nel canone europeo. Ma a queste due attività principali, di poeta in proprio e traduttore, se ne dovrebbero aggiungere molte altre: quella del Bodini comparatista, redattore e consulente editoriale prevalentemente per Einaudi, che pure non volle mai assumerlo come redattore – non dimentichiamo che sarà lui a “scoprire”, fra gli altri, Cortázar –, del giornalista o meglio autore di accurati reportage di notevole qualità letteraria, del saggista – importante il lavoro sulla Vita è sogno di Calderón, come pure gli studi su Góngora –, dell’animatore di riviste nonché, direi, e sebbene fosse piuttosto schivo, dell’agitatore culturale, che partendo dal futurismo della prima gioventù arriverà in seguito a ispirare, con le suggestioni barocche della maturità, un altro amico leccese, Carmelo Bene. Il quale – prima e unica esperienza cinematografica di Bodini – gli affiderà il ruolo di un senile Don Giovanni nell’omonimo film da lui diretto.
Dicevo dell’apparente squilibrio: ma negli ultimi anni in particolare la sua poesia – anche grazie alle meritorie e necessarie riedizioni della casa editrice Besa di Nardò – è stata oggetto di studi e rivalutazioni, tanto che quella che era sembrata inizialmente una poesia epigonica e tutto sommato assimilabile alle esperienze di altri, peraltro mirabili, poeti del Meridione, a cominciare da uno Scotellaro, è ora vista con maggiore equanimità, e se ne è meglio valutata l’originalità. Poesia dalle tinte spesso cupe, di uomini che “accampati aspettano un’altra vita”, di pianure “a perdita d’occhi” in cui “sole si sporgono / capre o spettri di capre morte da secoli / che brucano le amare giade dell’insonnia”, di stagioni inclementi come “l’inverno assediatore” della Luna dei Borboni, mentre il paese, in un “tramonto da bestia macellata”, è e resta, come scrive in una specie di accorata invocazione, “così sgradito da doverti amare”. Il Sud, amato e aborrito a un tempo, vi è visto come una culla mitica e di enorme ricchezza culturale e paesaggistica, luogo per certi versi favoloso, ma al tempo stesso anche feudale, statico, repressivo, tale da non consentire alcuna evoluzione, come una prigione per certi versi dorata da cui non è lecito fuggire.
Con la sua architettura barocca, che Bodini riallaccia direttamente alla grande tradizione barocca e metafisica spagnola, Lecce, da cui fugge e verso cui torna costantemente, ne diviene il fulcro e al contempo l’epitome. Una Lecce che, come scrive, non è “luogo della geografia ma una condizione dell’anima” e che forse Bodini non cessa mai di riscoprire proprio grazie al filtro dell’esperienza spagnola, un po’ come avviene quando applichiamo una lente colorata all’obiettivo della nostra macchina fotografica. Alla problematica che potremmo genericamente definire meridionalistica si aggiungono poi lo smarrimento dovuto alla perdita delle radici contadine e all’industrializzazione forzata e in generale i disastri prodotti dallo scorrere del tempo. Le immagini sono intense e spesso innovative, e testimoniano senz’altro della lunga ricerca di un linguaggio che si affrancasse dall’ermetismo, si aprisse all’evocazione e alla testimonianza esistenziale e fosse disponibile a una moderata sperimentazione, senza cancellare però il nitore del dettato poetico.
Un esempio per tutti: “(Era un confine ogni albero che il treno varcava / spogliando i rami del loro fogliame di corvi, / e quel delirio d’ali nere nell’aria / arsi frammenti erano d’una lettera / che tenteremmo invano di ricomporre.)” Risultati, come si vede, per nulla scarsi o risibili, pur trattandosi – e questo si fa davvero fatica a comprenderlo – di un autore ignorato dalle maggiori antologie di poeti italiani del Novecento. Nell’ultimo ciclo di poesie, Metamor, ultimato poco prima della scomparsa, Bodini si aprirà ulteriormente a suggestioni surreali e prosastiche, a metafore ardite e talora insistite, ritornando però al contempo al metro irregolare degli amati surrealisti spagnoli e a una meditazione sull’essenza stessa dell’esercizio della poesia che affronta, va detto, con sempre maggiore scetticismo, sempre meno convinto delle qualità salvifiche dello scrivere, e in particolare dello scrivere poesia.
Chiudo con una nota personale: grosso modo una quindicina di anni fa un editore milanese mi contattò per ritradurre il Don Chisciotte, immaginando forse che dopo quarant’anni si potesse sfidare l’implicito divieto (o commettere il sacrilegio) di accostare un altro testo a quello di Bodini. (E tuttavia nel frattempo, se non vado errato, di nuove edizioni ne sono uscite ben sette.) Il progetto poi non andò in porto, un po’ per l’esiguità della remunerazione – non si sa bene perché, ma in Italia, e solo in Italia, il lavoro culturale è pressoché gratuito quasi per definizione –, e un po’ perché mi avrebbe richiesto, lavorando io a tempo pieno, un impegno di svariati anni (non dimentichiamo che per preparare l’edizione einaudiana Bodini ce ne mise tre). In preda a un primo, comprensibile entusiasmo, comunque, mi avventurai in una prova di traduzione producendo, credo, un paio di capitoli. Non andò neanche male, e fu comunque un’esperienza interessante e formativa: ma la versione elegante e antiretorica di Bodini è tutt’altra cosa e resta per me insuperabile, anche perché il suo hidalgo, con tutti i suoi affanni e la visionaria testardaggine, gli assomiglia in modo misterioso, come una specie di proiezione attraverso i secoli. Col senno di poi, e conoscendo ora meglio il resto della sua produzione, in particolare di quella poetica, è per me lampante che per i discorsi, le divagazioni e le farneticazioni di don Alonso Quijano non si sarebbe potuto trovare traduttore diverso, o migliore.