Daniela Matronola
A proposito de "La sagoma"

La favola di Celeste

Daniela Carmosino ha pubblicato un piccolo e riuscito romanzo in versi che sembra quasi una favola crudele che riflette sulla condizione dei bambini. Sempre più dimenticati in questi nostri difficili tempi

In una recente presentazione online de La sagoma, piccolo, formidabile libro di Daniela Carmosino (RP Libri, 90 pagine, 12 Euro), ho sentito pronunciare più volte una serie di aggettivi e definizioni decisamente calzanti eppure lievemente fuori fuoco. Parole molto competenti e generose pronunciate con giusto piglio accademico, molto lusinghiere nei confronti del valore del libro, ma che, per ragioni che spero di spiegare prima di tutto a me scrivendone qui, hanno tentato l’approccio al testo quasi smontandolo.

Concordo sul fatto che questo libro, piccolo e impertinente, è molto stratificato, è pieno di segnali di senso, di tracce che conducono a “vedere” verità nascoste, o meglio ben mimetizzate nella tessitura agile leggera e corposa del racconto in versi, cadenzato da un vero ritmo a orologeria, che ha i suoi climax e i suoi allentamenti, ma in certi punti ti serra e non ne vuole sapere di mollarti.

Però… però la bellezza, perché di bellezza si tratta, de La sagoma risiede prima di tutto nel fatto che si tratta di un giocattolino ben funzionante che va preso e tenuto insieme come miracolosamente è riuscita a plasmarlo la sua autrice, Daniela Carmosino, docente di Critica Letteraria e di Letterature Comparate all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, in passato anche editor di casa editrice.

Che cos’è questo libro? È un romanzo in versi, e come recita il sottotitolo “una favola crudele”.

Due versanti dell’opera: l’uno formale, l’altro riferito ai temi e allo stile. A unirli la paroletta, “favola”, che allude alla fabula, alla storia, al racconto, ma anche alle storie per bambini. Come accade per tanti libri definiti “per bambini” o “per ragazzi”, questa è una storia di bambini, la storia di una bambina e di molti altri che ruotano attorno a lei, e della oggettualità dei bambini, della loro posizione di obiettivo svantaggio rispetto al mondo degli adulti che tutto decide per loro.

Prima di entrare in questo ambito tematico, vorrei ancora trattenermi sull’aspetto formale, sullo stile. La storia è seminata in 29 capitoli di lunghezza e densità disuguali, e in questa chiave ci viene facile pensare a una vera storia, a un vero sviluppo, a una trama ordinata. L’opera è in versi e questo permette all’autrice di muoversi all’interno della sua materia con grande agilità suggerendo con affondi e trasvolate un vero e proprio romanzo di formazione di sapore sinistro, quasi dotato di sfumature gotiche, che copre un arco di tempo, altrettanto agilmente “somministrato”, molto lungo: l’arco di una vita, dalla nascita alla maternità. Il dettato è dunque rarefatto però con zone di densità diversa, in cui troviamo passaggi resi danzanti da un ritmo breve, sincopato a tratti, sottolineato anche da elementi di punteggiatura, e passaggi densi quasi di prosa molto densamente narrativi.

Un dato decisamente rilevante è questo tu, la seconda persona singolare, che più che un punto di vista è un interlocutore o uno specchio. È come se l’io che narra si vedesse riflesso e parlasse con il proprio sé. Interessante e un po’ raro, non comune, ma anche inquietante. La lei del tu è Celeste, bambina nata quarta figlia, dopo molto, forse, e intanto si dice subito che questa nascita, ancorché sgradita al misterioso padre perché non è un maschio, è come fosse capitata a guastare la festa, a scombinare un tortuoso assetto familiare a stento cucito insieme, a mettere in crisi le singole esistenze di quanti compongono l’articolata famiglia e i rapporti tra tutti loro.

Si insinua subito che c’era un prima della nascita e c’è un dopo la nascita.

E dove è cascata Celeste? In una famiglia dopotutto ordinaria, in cui ci sono dei nonni, una madre abbastanza gravata da un surménage familiare, e poi ci sono le zie, due ziette infernali, tanto care tanto buone tanto soccorrevoli di cui conosciamo subito le traversie e poi seguiamo le acrobazie.

Un mondo familiare perlopiù femminile. Un mondo perlopiù di donne, di famiglia o amiche, equamente suddivise tra arpie streghe e ladre tra le quali solo una “vede” davvero Celeste, cioè le riconosce identità e realtà. Un momento meraviglioso, in cui Celeste sente davvero di esistere e non più d’essere un oggetto da spostare, da tiranneggiare, da accaparrare. Un momento che non dura molto, però è una piccola luce, stavolta non cupa, che non stende ombre lunghe e ambigue sul suo cammino, e le mostra cosa vuol dire non essere abbindolati o raggirati o anche ricattati.

Alla bellezza di questo piccolo, esplosivo libro contribuisce una serie di disegni che illustrano con tratto infantile ed effetto kinghiano, prima subdolamente poi brutalmente distorsivo, i personaggi della storia.

Colpisce il fatto che nel disegno che campeggia sulla copertina c’è un talloncino rosso, come una tasca sul caffetano che veste la protagonista, percepibile al tatto: se fate la prova, se ci passate sopra le dita, avvertite quella macchia di colore in lieve rilievo. Sembra poco, è un dettaglio minuscolo, ma è lì esattamente, con sensazione poco chiara ad inizio lettura, poi con sensazione soverchiante a libro letto e chiuso, a rovesciare la percezione totale del libro, della storia letta, dei fatti e delle fisionomie dei personaggi, non solo suggeriti dalla narrazione ma anche indicati nei disegni, per quanto siano ritratti in cui prevale l’interpretazione, diciamo così, che di quegli stessi personaggi conserva e prova a comunicarci, per mediazione dell’autrice, Celeste.

Questo rovescia il guanto: capovolge completamente il senso di ciò che si è letto.

E chiarisce che questa sorta di memoria narrata è anche il sintomo di una regressione cui Celeste torna quando rivive la propria storia richiamandola dalla nascita cioè raccontandola a sé stessa. Una sorta di effetto-Marnie (ricordate il film di Alfred Hitchcock?) che nell’istante in cui finisce di rivelare comincia ad agghiacciare.

Proprio pochi giorni fa facevo qui il punto su un romanzo di Flannery O’Connor, Il cielo è dei violenti, in cui un aspetto rilevante è il modo in cui il mondo degli adulti accoglie e forgia i bambini schiacciandoli con un’azione educativa che, anche quando è volta al bene o svolta in buona fede, può rischiare di non “vedere” nei bambini delle persone autonome nella dignità, dunque degne di rispetto, esseri fragili su cui non è giusto né privo di gravi conseguenze agire in modo violento e  prevaricante.

C’è, giusto all’inizio di questa storia, la descrizione di un’immagine: Celeste vista di spalle. Sulle sue spalle, ciò si preannuncia, graverà un concorso di azioni da parte di adulti scriteriati, innocenti fino a un certo punto, che indirizzerà inevitabilmente la sua vita. E a cadenzare questo comune inferno c’è anche una sorta di eliotiana “overwhelming question”, una domanda martellante, “Vai a sapere, adesso, Celeste chi è che ha ragione?”. Che fa il paio con la ricorrente  manovra esercitata sulla coscienza del bambino quando si mette in atto il meccanismo di suscitare e poi sapientemente alimentare il senso di colpa,, passando a un dato momento a riscuotere il premio.

Sì, questo libro è una favola crudele. Crudele e comune. Ordinariamente spietata senza avere l’aria d’esserlo. La falsa innocenza annidata nella vicenda è suggerita anche dalla presenza di citazioni dai passi delle ballatine che aprivano e chiudevano le Fiabe Sonore dei Fratelli Fabbri Editori che hanno nutrito le infanzie di intere generazioni, soprattutto di chi è nato negli anni Sessanta. Celeste dopotutto è una moderna Cenerentola senza un Principe Azzurro documentato: punterà con libertà inaudita e insperata sulla propria femminilità, qualcosa riuscirà a cavar fuori di buono dalla propria avventura, una vita pilotata e distorta, eterodiretta si dice oggi. Ma lei nel cantuccio nascosto della sua invincibile innocenza, della sua pura fortezza, ha saputo custodire, congelandola, una sensibilità che ora è pronta a scattare per prendere il dominio del suo sé.

Da ultimo loderei l’impegno grafico e la cura editoriale con cui Rita Pacilio, titolare della piccola casa editrice RP Libri, ha confezionato questo prezioso libro insieme a tutti gli altri di cui si è presa cura dall’autunno del 2017. Una piccola etichetta editoriale molto accurata e sapiente nelle scelte in ogni direzione. Per esempio nel caparsi i buoni autori: nel 2018, quasi subito, ha prodotto il secondo libro di Gabriele Galloni, In che luce cadranno, nella collana sorvegliata da Antonio Bux.


Accanto al titolo, “Wall paper” di Chiara Camoni.

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