La cultura in tempi di pandemia
Giù dalla Scala
La passerella di divi e banalità proposta dalla Scala in tv per l'apertura della stagione in epoca di Covid è lo specchio fedelissimo di un mondo dello spettacolo - quello italiano - sopraffatto dall'approssimazione e dalla mancanza di idee
La prima della Scala che ritorna puntuale nel giorno di Sant’Ambrogio, il sette dicembre di ogni anno del Signore, costituisce ab immemorabile una festa dell’orgoglio culturale nazionale; l’unica in questo paese smemorato, magari proprio a causa delle spalle curve sotto il peso del troppo patrimonio storico, artistico, letterario e musicale con il quale si ritrova a dover convivere. Sarà per questo che non ricordo un solo sette dicembre nel quale non si siano scomodate, sempre, le voci più autorevoli a cantare lodi sperticate e qualche volta immotivate sulla meraviglia dello spettacolo scaligero, sul riverberarsi nell’attualità del “messaggio” proclamato dalle assi tecnologicamente rimodellate del Piermarini e sulla grande epifania del genio italico mostrato orgogliosamente al mondo. Tanto che anche le manifestazioni di dissenso rispetto alla qualità degli allestimenti che qualche volta si facevano largo in mezzo ai peana, venivano normalizzate in una rassicurante tradizione popolare e folcloristica, quella che appartiene al pubblico della lirica ossessionato dalla ripetitività dei riti e nemico di ogni innovazione interpretativa.
Occorre dire subito che lo spettacolo presentato questo sette dicembre duemilaventi, l’anno della grande pandemia e del grande isolamento sociale, può orgogliosamente mostrarsi anche lui interprete fedele dello spirito dei tempi, come e più di quelli che l’hanno preceduto: nel senso che riassume con puntuale autorevolezza e televisiva impudicizia uno dei periodi più bui di decadenza culturale della storia italiana; infarcito di conformismo espressivo, di ossequio al politicamente corretto, di faciloneria registica e ammiccamenti, appunto, televisivi. Un centone di banalità da recital filodrammatico che la presenza di illustri interpreti, talvolta in visibile imbarazzo rispetto al materiale che venivano chiamati a nobilitare, non è bastata a travestire di plausibilità; e che i resoconti grotteschi dei TG arruolati a salvare la patria, hanno reso il giorno successivo ancora più impresentabile. Le critiche comparative non si devono mai scrivere ma il paragone con l’intelligente e contemporaneo Barbiere di Siviglia creato da Martone e Gatti per l’Opera di Roma pochi giorni prima, si impone come inevitabile.
Si è messo insieme tutto e il contrario di tutto, ammantato dei molti orpelli che le possibilità scaligere consentono alle regie bisognose di stampelle: automobili, motorette, furgoncini, zattere sull’acqua luminescente, filmati preregistrati e realtà aumentata; riversati senza parsimonia e senza alcuna urgenza espressiva sul repertorio più amato e conosciuto della storia operistica, accompagnati da pensose riflessioni di elementare ovvietà che tentavano di dare un senso a quel marasma di nonsenso; o addirittura da frammenti della più grande poesia di tutti i tempi arbitrariamente chiamati al soccorso, da Montale, a Dante, a Fellini, a Victor Hugo. Abbiamo visto Lucia di Lammermoor sulla spiaggia ma con gli ombrelli, Don Carlos in una stazione innevata dove gli interpreti in frac pesticciavano con le scarpe di vernice la neve artificiale senza particolare disagio, Madama Butterfly in immersione subacquea tra fiori di corallo, Don Pasquale a Cinecittà arrivatoci sulla Triumph Cabrio de La Dolce Vita e sull’Ape di Zampanò. Da non dimenticare nemmeno Carmen che cantava in mezzo all’acqua e la Casa Bianca in fiamme dietro non so più quale romanza. Per finire il regista, in smoking da gran serata, è apparso sul palco per spiegarci con umiltà e discrezione il senso del suo parto creativo; aiutato subito dopo dalla Carlucci e da Vespa che, uscendo dalle porte del teatro auspicavano a tutti noi “di riveder le stelle” come loro, perché le stelle non sono mica soltanto dantesche, con la Carlucci si sa che “chiamano” in “tele”, che di più non si può.
Come avrete notato, non abbiamo citato nessuno degli artisti sciaguratamente coinvolti in questa disavventura: perché quasi tutti professionisti di indiscutibile e prestigiosa carriera teatrale, sarebbe ingiusto coinvolgerli in una condanna ecumenica. Soprattutto la parte musicale della serata è parsa degna delle tradizioni scaligere che potevano essere meglio indirizzate a un convincente risultato positivo. Un solo interprete merita sicuramente un plauso assoluto, Roberto Bolle che, sulle note di Di Lei e Satie, ha duettato con un laser di chirurgica perfezione in un’invenzione del coreografo Massimiliano Volpini. A dimostrazione che le nuove tecnologie si possono e si devono utilizzare, quando sono necessario strumento di un’ispirazione creativa forte.
Ma non disperiamoci: probabilmente questa prima scaligera, che conclude un anno così nefasto per il teatro, servirà a voltare pagina, un’altra volta la Scala diventa maestra di vita teatrale. Come? A scoraggiare le derive facili ormai di casa su qualunque palcoscenico della lirica e in non pochi della prosa; quelle scorciatoie televisive e ammiccanti per evitare il dubbio di appartenere a un mestiere troppo antico (e magari superato dai tempi?), dimostrano la loro superfluità. E i sovrintendenti furbi eviteranno di caldeggiarle ancora all’orecchio di registi facili.