Michela Di Renzo
La vita che viviamo

Respiro!

«La mattina dopo appena alzati accendemmo la televisione: il numero di casi era ulteriormente aumentato e i comuni adiacenti a quello in cui avevamo dormito furono dichiarati zona rossa. “Non mi sembra il caso di andare all’Opera oggi pomeriggio” mi disse Bruno con un tono perentorio»

Da alcuni giorni sentivo un’oppressione al petto, una specie di mattone appoggiato sopra lo sterno che mi rendeva difficile respirare tanto che in alcuni momenti dovevo interrompere quello che stavo facendo per riprendere fiato. Era come se l’aria non riuscisse a trovare la sua strada fino ai polmoni, come se fosse diventata improvvisamente pesante. In alcuni momenti poi pareva quasi bruciare nel passare attraverso la gola e scendere giù fino alla trachea e mi provocava dei colpi di tosse. Era allora che avvertivo un brivido di terrore scorrermi lungo la schiena. 

Era cominciato tutto di ritorno da quel maledetto fine settimana, quello in cui il venerdì mattina, a Codogno, c’era stato lui, il paziente 1. Con la radio accesa, in autostrada, io e Bruno, il mio compagno, mentre ci dirigevamo verso Lodi, ascoltavamo gli aggiornamenti continui: avevano chiuso l’ospedale con tutto il personale dentro e i casi nella provincia continuavano ad aumentare. “Ma se tornassimo indietro? La prossima uscita è tra cinque chilometri” mi aveva chiesto lui dalle parti di Bologna. Quella sera per la prima volta da quando stavamo insieme andavamo a cena dai suoi, a pochi chilometri da Codogno, nella bassa Padana, per poi a dormire a casa sua, lì vicino; il giorno dopo avremmo fatto un salto a Milano per incontrare Sonia, una carissima amica che non vedevo da tempo. Prima di rispondere alla domanda di Bruno mi ero voltata indietro e avevo dato un’occhiata al mio borsone con dentro il vestito comprato apposta per coronare il sogno che coltivavo da mesi: andare a vedere il Trovatore, quella domenica pomeriggio alla Scala.

Una decina di giorni prima ero andata in una boutique del centro e avevo acquistato un tailleur nero, con la gonna di raso lucida e la giacca di velluto con i bottoni dorati, adeguato a un palco centrale di un teatro rinomato non solo per la sua musica ma anche per la sua eleganza. “Ma no proseguiamo” avevo detto mentre mi balenava davanti la mia immagine riflessa nello specchio del negozio con indosso quel vestito elegante. E poi chissà quando mai avrei avuto di nuovo l’occasione di indossare un capo di quel genere. “Sei sicura? La situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro” aveva insistito Bruno. Ma lui è fatto così, pensa sempre al peggio in ogni situazione, come quella volta che partendo per la Croazia aveva previsto una fila di almeno tre ore per varcare il confine e ci avevamo messo meno di trenta minuti.

Oltre tutto per motivi di lavoro era in contatto con Shangai e i colleghi cinesi durante l’epidemia che aveva colpito il loro paese gli avevano raccontato delle misure drastiche prese per limitare il contagio. “Intanto andiamo dai tuoi, poi vediamo cosa succede” avevo ribadito io. Stavamo insieme da circa sei mesi durante i quali mi aveva parlato spesso dei genitori e in particolare di sua madre che nonostante avesse fatto la quinta elementare aveva svolto un ruolo importante nella sua vita, spingendolo a studiare e a diventare quello che è, ovvero un ingegnere elettronico. L’unica cosa che le rimproverava era di essere una donna molto apprensiva.

Durante il tragitto in macchina ci telefonò: “Siete convinti di voler venire a cena da noi? Lo sapete vero quello che sta succedendo da queste parti?”. Bruno ebbe un attimo di incertezza ma io mi intromisi presentandomi e subito dopo chiedendole come stavano lei e suo marito. Quando mi rispose: “Bene” insistei per proseguire. Incontrarli avrebbe sancito in modo più serio la relazione tra me e suo figlio: dopo il divorzio lui aveva avuto diverse storie ma io ero la prima a cui faceva varcare la soglia di casa dei suoi. “Ho invitato anche la zia Rosaria, ci teneva tanto a conoscere Anna” proseguì la madre di Bruno che sorrise. “Hai fatto bene mamma”. La zia che non si era mai sposata lo aveva sempre trattato più come un figlio che come un nipote.

Ma la cena con i suoi parenti si rivelò una delusione perchè durò poco più di un’ora: sua madre non riusciva a spiccicare parola mentre guardava con gli occhi sgranati la televisione che continuava a trasmettere notizie inquietanti. Zia Rosaria poi si portava spesso il fazzoletto al naso che le colava. Intuendo la paura di Bruno ripetè all’infinito la frase: “Io questo raffreddore ce l’ho da mesi, è tutta colpa della stufa a pellet che ho comprato quest’inverno, scalda troppo quando ci stai vicino” ma suo nipote le stette il più lontano possibile e non ebbe pace finché, appena finito di cenare, non ci alzammo e non andammo a casa sua dove dormì poco e male. La mattina seguente cercò di convincermi a non incontrare Sonia: “Lo so che sono mesi che non la vedi ma secondo me non è il caso di andare a Milano.” Per tranquillizzarlo chiamai la mia amica che mi confermò quello che immaginavo, ovvero che stava benissimo; del resto in tanti anni che la conosco non l’ho mai sentita lamentare un problema di salute.

A Milano passamo un bel pomeriggio noi tre a giro per i negozi del centro: l’epidemia era alle porte ma in quel momento, in via Montenapoleone piena zeppa di gente, sembrava molto lontana. Solo Bruno ogni tanto era inquieto e a un certo punto chiese timidamente a Sonia: “Ma ci sarà domani lo spettacolo alla Scala?”. Lei lo guardò come si guarda un marziano. “Ma certo” rispose. “Sai Bruno non è un entusiasta della musica lirica, mi accompagna solo per farmi contenta” intervenni io. “Le persone contagiate sono sempre di più, è molto rischioso stare chiusi in un teatro” proseguì lui. “Vediamo che succede domattina dai” gli dissi prendendolo dolcemente per mano. “A proposito come ci vai vestita all’Opera?” mi chiese Sonia. “Ho comprato un tailleur nero. Tu vedessi quanto è bello. E poi mi calza a pennello”. Pensai di nuovo che sarebbe stato proprio un peccato non indossarlo.

La mattina dopo appena alzati accendemmo la televisione: il numero di casi era ulteriormente aumentato e i comuni adiacenti a quello in cui avevamo dormito furono dichiarati zona rossa. “Non mi sembra il caso di andare all’Opera oggi pomeriggio” mi disse Bruno con un tono perentorio. “Ma siamo venuti fin qui apposta” replicai io. “Anna ti rendi conto o no di quello che sta succedendo?” “Aspetta fammi telefonare al box office. Se è così rischioso come dici te annulleranno lo spettacolo”. Chiamai il Teatro e il ragazzo che mi rispose mi disse che il Trovatore era confermato. Quando lo riferii a Bruno lui alzò la voce. “La fai finita o no con questa storia dell’Opera? Qua sta succedendo quello che è successo in Cina. La cosa più sensata da fare è tornare a Siena il prima possibile. Se poi ci vuoi andare a tutti i costi alla Scala ci vai da sola col treno. La stazione è qui davanti”. Indicò bruscamente verso la porta di casa, dopo di che andò in camera e si mise a fare la valigia. Io mi avvicinai alla finestra di cucina da dove si vedevano i binari e con la mano scostai leggermente la tenda. Era una bella giornata di sole e proprio in quel momento stava passando un treno, come ogni altra domenica qualunque. Sarebbe stato semplice andare a Milano, con indosso il mio vestito elegante, ma senza Bruno non sarebbe stata la stessa cosa. Oltre al fatto che i contagi stavano aumentando e lui poteva avere davvero ragione. Chiamai Sonia e le chiesi se voleva andare all’Opera al posto mio. Almeno qualcuno lo spettacolo se lo sarebbe goduto. “Volentieri, oggi pomeriggio sono libera. Tra l’altro ho nell’armadio un vestito adatto per questa occasione” mi disse. Dopo qualche ora, mentre io e Bruno eravamo già sulla via del ritorno, ci chiamò per dirci che aveva trovato il teatro chiuso e sul cartellone dello Spettacolo avevano scritto “Annullato”. La notizia riuscì a placare la mia rabbia mentre l’ansia di Bruno diventava sempre più opprimente. “Te lo avevo detto che la situazione era drammatica, non saremmo mai dovuti venire a Lodi questo fine settimana” “Ma non abbiamo incontrato nessuno con la febbre, come abbiamo fatto a beccarla?” gli ripetevo ogni pochino. La sera a casa però sul computer feci una ricerca su Pubmed per saperne di più del coronavirus e tra i numerosi articoli ne trovai uno pubblicato pochi giorni prima da autori cinesi: dimostrava che una parente completamente asintomatica aveva contagiato tutti i membri della famiglia, una cosa che oggi sappiamo bene ma che allora ignoravamo. Questo significava che potevo essermi infettata anche io. Decisi su due piedi che non era quello il momento di condividere la notizia con il mio compagno. Glielo avrei detto ma con calma, nei giorni successivi. Fu allora, dopo aver letto l’articolo, che iniziai ad avvertire quell’oppressione che mi stringeva il petto. “Sarà sicuro tornare al lavoro al Pronto Soccorso? Dopodomani sono di turno” mi chiesi.

Chiamai il mio capo e gli raccontai dove avevo trascorso il fine settimana. Il mio direttore che sa sempre quello che è giusto e quello che è sbagliato quella volta brancolava nel buio: dopo essersi consultato con il medico competente mi fece rientrare, tanto stavo bene. O almeno così sembrava.

Dopo pochi giorni Sonia, per la prima volta in vita sua, ha avuto la febbre. Quando mi ha chiamato per chiedermi ogni quante ore andava presa la tachipirina, l’ho sentita serena, però intanto mi aveva telefonato. I miei sintomi sono peggiorati. Tutto il Nord Italia stava peggiorando. Ho chiamato di nuovo il mio direttore. “Da qualche giorno sto male, mi manca l’aria, mi sento un peso sul petto, potrebbe essere suggestione è vero, ma se mi facessi il tampone? Se sono infetta non posso certo stare qui dentro a lavorare”. Col suo modo di fare autoritario, che spesso negli anni è stata per me occasione di scontri perché detesto prendere ordini da qualcuno, mi ha confermato che era il caso di effettuarlo. “Non ci sono dubbi, chiuditi dentro alla stanza a pressione negativa nell’attesa e fammi sapere”. Lì dentro faceva un freddo tremendo. “Ci mancherebbe solo che mi venisse la polmonite per essere stata tutta la sera in questo box” ho pensato.

Ho telefonato a Bruno a casa per spiegargli come mai sarei tornata più tardi. “Non mi avevi detto che non stavi bene oggi prima di uscire di casa, anche se stanotte qualche volta ti ho sentita tossire”. “Mi è preso un po’ di affanno nel pomeriggio e quando ne ho parlato col Volpe mi ha intimato di fare subito il tampone”. “Chiamami subito appena hai la risposta” mi ha detto Bruno con la voce concitata. “Ma certo” ho risposto e ho riattaccato.

Nel frattempo la mia difficoltà a respirare continuava ad aumentare insieme al bruciore allo sterno; sentivo come delle lingue di fuoco che mi passavano attraverso la gola e chiusa lì dentro mi era comparso anche un cerchio alla testa come quando se avessi la febbre anche se il termometro non l’aveva rilevata. Ogni cinque minuti controllavo il computer per vedere il risultato del tampone. Dopo tre ore che mi sono sembrate eterne è arrivata la risposta: negativo. A quel punto mi sono sentita improvvisamente bene al punto di dire a voce alta: “Respiro”. Ho chiamato prima Bruno che ha urlato entusiasta: “Evviva!” e poi il mio capo che ha commentato con sarcasmo: “Il prossimo fine settimana libero vai in Cina mi raccomando”.  

Quando sono uscita dalla stanza ho incontrato un collega col volto rilassato: nei giorni precedenti prima che ci dicessero di indossare le mascherine chirurgiche avevamo parlato a lungo al momento del cambio e se fossi stata positiva avrebbe rischiato il contagio. “Tutto bene per fortuna. Allora ti dimetto. Vuoi stare a casa qualche giorno?” “Non ci penso nemmeno. Domani mattina sono di turno qui” ho risposto di getto. In quel box con quel mattone sul petto e l’aria che faceva fatica ad entrare avevo finalmente capito dov’era il mio posto: lì, in prima linea, anche se nel mio piccolo, certo.

Da allora ogni tanto però continuavo a provare una forte sensazione di rabbia ogni volta che aprivo l’armadio e vedevo quel tailleur elegante appeso lì, nuovo, mai messo. Quando al lavoro mi guardavo più volte allo specchio per vedere se avevo dimenticato di indossare uno dei numerosi mezzi di protezione prima di fare il tampone all’ennesimo paziente sospetto e mi vedevo con indosso quella tuta bianca informe che mi copriva da capo a piedi facendomi assomigliare all’omino della Michelin a volte mi salivano le lacrime agli occhi. Finché una sera hanno dato su Raiplay la Traviata, una delle mie opere preferite, in una versione registrata alla Scala anni fa. Bruno che ha deciso di restarmi accanto nonostante il mio lavoro rischioso e lo smartworking che gli consentirebbe di lavorare da casa sua a Lodi, una sera entrando nel soggiorno mi ha trovata lì sulla poltrona davanti alla televisione, tutta truccata, con le perle al collo, le scarpe col tacco e il mio tailleur nero elegante indosso. Ha avuto un attimo di incertezza poi guardandomi meglio si è accorto che avevo gli occhi rossi come se avessi appena finito di piangere. A quel punto stringendomi forte la mano mi ha detto: “Ti giuro che appena riapre la Scala ci andiamo”.

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