A proposito di “Those who know don’t say”
L’altro razzismo
In un saggio molto documentato Garrett Felber, storico dell’università del Mississippi, ricostruisce la parabola della discriminazione della quale sono stati vittima i musulmani neri negli Stati Uniti
Selezionato tra i nove titoli che si sono contesi lo Stone Book Award 2020 – il premio assegnato dal Museo di storia afroamericana di Boston e Nantucket Island, le due sedi, nel Massachusetts, di un’istituzione che dal 1967, anno della sua fondazione, si occupa di preservare la memoria del contributo delle comunità nere alla storia degli Stati Uniti – Those who know don’t say, “La Nation of Islam, il movimento Black Freedom e lo Stato carcerario” (University of North Carolina Press, 272 pp., 19,59 euro, ebook 8,05 euro), è un coraggioso saggio di Garrett Felber, storico dell’università del Mississippi, che mette radicalmente in discussione la narrazione degli eventi dell’ultimo ventennio in Occidente, come viene sintetizzato nell’Epilogo: «Benché i suprematisti bianchi di casa nostra rappresentino la più grande minaccia terroristica, il terrorismo internazionale è perseguito più vigorosamente e la retorica demonizzante dell’Islam radicale pervade il nostro dibattito pubblico».
Felber lascia parlare i numeri, ignorati proprio da quella retorica, dominante anche in Europa. Nel decennio 2007-2017, la violenza e il terrorismo di destra hanno causato oltreoceano il 70 per cento degli omicidi politici. Ma il Dipartimento di Giustizia statunitense ha applicato le leggi antiterrorismo solo a 34 su 268 estremisti di destra accusati di atti terroristici dopo l’11 settembre, mentre con le stesse leggi facevano i conti più di 500 presunti terroristi internazionali. E nel 2016, 1.093 persone sono state uccise dalla polizia: 266 erano neri che, statistiche alla mano, in rapporto alla loro percentuale sulla popolazione complessiva degli Stati Uniti, hanno il doppio di probabilità dei bianchi di morire quando incrociano la polizia, pur essendo doppia rispetto ai bianchi anche la probabilità che in quel momento siano disarmati. Una palese disparità di trattamento che ha radici profonde nella storia del XX secolo, analiticamente ricostruite dall’autore.
Fondata nel 1930 a Detroit da Wallace D. Fard (“pronunciato Far-rod”, precisa Felber), un misterioso venditore ambulante di seta, la Nation of Islam (NOI) ridefinì l’identità dei neri in America, simboleggiando con l’incognita matematica X i nomi dei loro antenati, andati perduti durante il commercio transatlantico degli schiavi. La risposta enigmatica fornita dagli esponenti della NOI ai tanti dubbi sulla loro identità era: «Quelli che parlano non sanno e quelli che sanno non parlano». La prima parte dell’aforisma si riferiva ai giornalisti, agli intellettuali e ai funzionari statali ritenuti (a torto) esperti della NOI; la seconda, ai musulmani che ne facevano parte, «impegnati in un movimento religioso anticolonialista, antirazzista e anticarcerario, a dispetto delle etichette esterne che venivano loro assegnate, ma che spesso rimanevano strategicamente silenziosi sul loro impegno politico, che è stato troppo a lungo oscurato», scrive Felber nell’Introduzione.
Quando gli Stati Uniti entrarono nella seconda guerra mondiale, la maggior parte degli afroamericani combatterono confidando in una “Double V”, com’era definita la duplice vittoria contro il fascismo all’estero e il razzismo in patria. Nel 1943, meno di 200 neri risultavano in carcere come obiettori di coscienza, ma quasi tutti erano musulmani della NOI che dicevano di essersi “arruolati con Allah”, compreso Elijah Muhammad, il leader subentrato a Fard. Erano finiti nel mirino del programma RACON (acronimo di “racial conditions”), varato da J. Edgar Hoover, il direttore dell’FBI: fu l’irruzione dell’archetipo del musulmano cattivo nella politica statunitense. Nel decennio successivo alla guerra, «parte della crescita della NOI poggiava sulla sua onnipresenza nelle comunità nere e sulla sua invisibilità all’America bianca», osserva Felber nel primo capitolo (Il dietro le quinte dei “musulmani neri”). I quattro templi della NOI esistenti nel 1945 (a Detroit, Chicago, Washington e Milwaukee), balzarono a 15 nel 1955 e a 50 nel 1960, quando gli affiliati erano stimati in oltre 250mila su scala nazionale, da meno di mille che erano alla fine della guerra.
Quell’invisibilità terminò pertanto nell’estate del 1959, con il documentario televisivo L’odio che ha prodotto odio, trasmesso da un’emittente newyorkese, che liquidava la NOI come un gruppo di suprematisti e razzisti neri che disprezzavano i bianchi. E decisiva fu nel 1961 la pubblicazione del primo libro sulla NOI, I musulmani neri in America, uno studio di C. Eric Lincoln, sociologo della Boston University, un nero che aspirava a una piena integrazione nel liberalismo bianco delle istituzioni accademiche. Il paradigma dei musulmani neri era di fatto tautologico per la teologia della NOI, che riteneva che essere neri significasse appunto essere musulmani. Tuttavia, «il libro e il documentario fornirono le basi per ignorare il rapporto dell’organizzazione con la politica anticolonialista e l’Islam ortodosso nel preciso momento in cui essa stava facendo sforzi coordinati per aderire a entrambi. L’idea dei musulmani neri come gruppo d’odio fu agevolata e diffusa dalla polizia penitenziaria, sostenendo che la NOI era un gruppo politico sovversivo mascherato da religione», spiega Felber. Grazie a quel paradigma, i musulmani di origine africana diventarono i primi neri «gravati da un doppio fardello della violenza di Stato: la guerra al crimine e quella al terrorismo». Lo stesso paradigma che, aggiunge Felber, «ha permesso allo Stato di ruotare perfettamente tra le discussioni sulla criminalità nera e sul terrorismo islamico».
L’11 febbraio del 1965, il 39enne Malcolm Little, meglio noto come Malcolm X, in un discorso alla London School of Economics descrisse la NOI, della quale fu il volto più celebre (quello sulla copertina del volume), come “uno degli ingredienti principali nella lotta per i diritti civili”, realizzata mettendo insieme la battaglia antirazzista internazionale per la libertà dei neri e il primo grande movimento carcerario di protesta per il diritto dei detenuti di praticare l’Islam. Malcolm X fu assassinato dieci giorni dopo a New York, presso la Audubon Ballroom. «Malcolm X era morto, due musulmani trascorsero decenni in prigione per un crimine che probabilmente non avevano commesso, e la guerra tra i seguaci di Malcolm X e quelli di Elijah Muhammad, che era stata fomentata per anni dalle forze dell’ordine, fu lanciata su vasta scala. Fu nello stesso tempo il culmine di decenni di sorveglianza e contrasto e un presagio di quanto stava per arrivare: il potenziamento di simili strategie», conclude Felber nel quinto e ultimo capitolo, ironicamente intitolato Lo stato che ha prodotto lo Stato, e suggellato con le parole di un altro esponente della NOI che, come Malcolm X, patì condizioni disumane di reclusione, Martin Sostre, scomparso il 12 agosto del 2015 a 92 anni: «Siamo tutti prigionieri politici a prescindere dai crimini invocati dagli oppressori bianchi razzisti per legittimare il nostro rapimento dai ghetti e la nostra tortura nelle loro gabbie».
Il 15 ottobre, nell’imminenza delle elezioni presidenziali e mentre proseguono gli omicidi di afroamericani da parte della polizia negli Stati Uniti, la giuria del premio ha preferito assegnare lo Stone Book Award 2020 a un saggio di Jelani M. Favors, storico della Clayton State University, sull’attivismo degli studenti neri nel movimento per i diritti civili.