Giuseppe Grattacaso
A proposito de "Il bianco della luna”

La luna di Martino

Una bella raccolta riassume il percorso poetico di Nino De Vita. Nelle pieghe della sua lingua sonora c'è la ricerca costante del senso della vita. E di quello che si riesce a vedere guardando le cose con la fantasia

Martinu è il bambino, ʼu picciriddu, che ha l’occhi astutati, gli occhi spenti. Accanto a lui c’è chi parla della luna: “Parlai ru biancu / ra luna; ri maculi nno biancu / ra luna; ra luci / chi scoppa ri na luna”. Intorno a chi racconta del bianco della luna, delle sue macchie, della luce che dalla luna proviene, c’è chi ascolta guardando, talianno ʼa luna. Ma il bambino Martino, che ha gli occhi spenti, non può guardare le magnificenze con cui la luna si presenta, stava cu ʼa testa calata, rimane a testa bassa a toccare l’erba appena nata. Martino non può vedere quello che la voce rivela della luna ru joco ra luna / chi s’ammuccia nne nèvuli / e s’affaccia”, la luna che si nasconde tra le nuvole e poi di nuovo si mostra. Eppure all’improvviso Martino prorompe in un’esclamazione: “È bedda ʼa luna!

La luna bedda è quella che dà il titolo all’antologia di poesie di Nino De Vita, Il bianco della luna, recentementepubblicata da Le Lettere, con prefazione di Emanuele Trevi. I testi sono scelti dallo stesso autore e quindi dànno conto di un percorso, rappresentano un’ideale testimonianza personale del suo cammino poetico, che peraltro non si è mai allontanato, nei contenuti oltre che per la lingua, dalla terra d’origine. Il volume segue la produzione del poeta di Marsala (di Cutusìo, per essere precisi, che di Marsala è una contrada, e che vanta, come a volte accade, una propria specifica declinazione dialettale) a partire da Fosse Chiti, libro d’esordio del 1984, passando per Cutusìu, che gli valse il premio Mondello nel 2001, fino ad arrivare ai più recenti Sulità e Tiatru. Chiudono il volume antologico alcuni testi inediti, che offrono una prospettiva sulla produzione in divenire.

Nell’esclamazione di Martino, nel suo riuscire a vedere quello che non può vedere, c’è tutto intero il senso della poesia di Nino De Vita, che porta il lettore all’interno di vicende e di situazioni che sembrano non concludersi, che ci lasciano sempre in una zona sospesa, portano ad un esito che viene differito, ci abbandonano prima che una soluzione possa rivelarsi, ci fanno sostare in una condizione vacillante, in un tempo esitante. È proprio lì però, in quel non detto e in quel non visto, che ci appare la luna nella sua bellezza. È in quella esitazione che il destino del personaggio, di ogni personaggio, ci viene rappresentato, è in quel luogo incerto e sfuggente, in quella mancanza di fiato e di luce, che risiede il compimento di ogni situazione.

Del resto, i personaggi di queste poesie sono spesso uomini e donne che cercano di capire la propria condizione, che è quasi sempre marginale e indefinita, cercano un punto di approdo, pacifico se non risolutivo, in uno scenario che è, per propria atavica costituzione, sfuggente e quasi sfocato. Sono alla ricerca di rettitudine e di sicurezza dove non può esserci che instabilità e scompenso. Da questo nasce una sorta di saggezza fatta di parole piccole e sfuggenti, di silenzi e indeterminatezza.

La poesia di Nino De Vita, come bene si evince da questa autoantologia, è innanzitutto racconto, ci sono personaggi che agiscono e si confrontano, circostanze che evolvono. Avviene però che il poeta guardi anche di lato e oltre, a quello che la vita non riesce pienamente a manifestare, a quel tratto di bianco, che dà ritmo e anche sgomento a ogni verso. Come avviene per la poesia di Seamus  Heaney, un microcosmo periferico e laterale, un piccolo mondo quasi al di fuori del mondo e della modernità, diventa il paradigma per dire quello che gli uomini sono, con quell’inespresso che essi sempre si portano con sé, con quella voglia di raccontarsi e di capire che non arriva mai a scioglimento, che non si esprime in forma definitiva. Le donne e gli uomini di Cutusìo portano con sé la leggerezza e il peso di quello che tutti gli altri uomini, di tutte le altre contrade del mondo, non sanno e vorrebbero sapere, sanno e desiderano dimenticare.

È un mondo, quello di Nino De Vita e della sua terra, ma in generale, diremmo, di una tradizione letteraria siciliana cara al poeta, che va da Bufalino a Consolo (peraltro essi stessi personaggi in alcune liriche), dove sostanza e finzione si mescolano, realtà e sogno si confondono. Anzi si intrecciano, si sostituiscono l’uno all’altra, tanto che la narrazione prosegue non più distinguendo, ma lasciandoci percepire la visione a tratti come più vera e concreta della rappresentazione reale.

Nella poesia ʼU Chiapparotta, il ragazzino che così viene chiamato pensa di uscire di casa per andare a inseguire una farfalla. “E cu è c’u po’ abbisari / quantu firrii e mmuntati, / scinnuti e zzicchiniati, / avia fatto a farfalla”. Già, chi può saperlo quanti giri e ascensioni, discese e serpentine ha già compiuto la farfalla prima di andarsi a posare nna spina nziccuta ru carduni, sulla spina rinsecchita del cardo. Sta di fatto che il Chiapparotta va nell’aia e segue  ‘a farfadditta che è volata nel giardino, “runni – ammezzu / e muschitti – i cattùppuli / uzziàvanu nne ciuri”, in mezzo ai moscerini, ai calabroni che ronzavano sui fiori. A un certo punto, un bambino dice al Chiapparotta di fare attenzione alle spine. “E tu cu sì?” gli domanda il Chiapparotta. “ ‘Eu sugnu un angiuliddu’ / ci arrispunniu. ‘E staiu / sempre vicinu a ttia’ ”. È lui, gli sussurra l’angioletto, ad averlo salvato mentre stava precipitando nel pozzo. Il dialogo viene però interrotto da una vuci, russali, una voce rozza: è il padrone, “ddu bbistinuni cu ʼa coppola e  ʼa bunnaca / ri peddi di caproni / gnasciata”, un omaccione con la coppola e una giacca di pelle di caprone sudicia, che gli scuote il braccio e gli intima di alzarsi per cominciare il lavoro. Il ragazzino si risveglia dal sogno e dice all’uomo che stava parlando con l’angelo. Il bbistiuni, senza pietà, sentenzia che “i sonnura / su’ tutti bbacarati”, i sogni sono fesserie, le pecore invece aspettano nell’ovile. Il ragazzino pastore si alza, si lava il viso, si sistimau i càusi, si infila i calzoni e guarda fuori dalla finestra. “Cc’era l’angiulu, ddà, / vivinu ru’ bbascagnu, chi taliava / ô ʼna farfalla ferma / nna spina r’un carduni”, l’angelo vicino al pungitopo, che guardava una farfalla che si era posata su una spina del cardo. Il Chiapparotta lo chiama, Angiuliddu, e l’altro gli sorride, cci rririu. “ ‘Veni’ cci rissi ‘veni’ / mmitànnulu cu’ a manu / a nnèsciri”.

È la lingua di Cutusìo, dal bacino geografico di pertinenza così ristretto e dai suoni così arcaici da apparire quasi costruzione fantastica, che offre a Nino De Vita, che ne è insieme fruitore ed inventore, sonorità e materia per attraversare il mondo e raccontarcelo, per dirci il bianco della luna e insieme vederla e farcela vedere con l’occhi astutati. È la lingua che permette agli uccelli, ai carcarazzi, ai cardiddi, alle gazze ai cardellini, di agire quasi consapevolmente, agli oggetti di avere un’anima, alla realtà di mostrare il suo marcio e il suo fascino, agli angiuliddi di muoversi tra noi come fossero farfalle.

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