Parole e ombre/13
‘l fio’ dla Rina
«Quando si trovavano a passare di lì in visita o per i loro commerci di galline, prodotti dell’orto, salami e sementi, le contadine chiedevano: “E ‘l Ninu, cum al va?”, informandosi obliquamente su come stava ma intendendo più che altro dire: “Possiamo vederlo?”»
Immagine di Enrico Graziani
Prima di diventare Cavaliere, Cavaliere della Repubblica per il lavoro svolto durante più di cinquant’anni nelle risaie fra Vercelli e Novara, il Cavaliere era il figlio della Rina e del Carlo, Cavaliere a sua volta ma del Lavoro, un ordine equestre lievemente diverso di cui però ora mi sfugge la differenza.
Era ‘l Ninu dla Rina, conosciuto nel raggio di chilometri a partire dalla cascina Oca, dove era nato e subito dopo scampato, per miracolo, allo zoccolo di una mucca che aveva perforato la sua culla, quella che ogni sera veniva trasportata nella stalla a trascorrere le prime ore delle nottate umide di nebbia degli inverni padani, riscaldata dagli animali e dalle donne che lì si riunivano a rammendare e raccontare storie.
La mucca imbizzarrita, spaventata pare da un tuono fragoroso, in quell’inverno del 1923 si narra abbia preso a correre all’improvviso senza badare a dove metteva gli zoccoli, fracassando così la culla di legno dove dormiva placido il piccolo Nino della Rina, la quale non aveva potuto far altro che lanciarsi a raccoglierne fra le assi rotte il corpicino incolume, stringerselo al petto e ringraziare la Vergine Santissima tra lacrime di gioia e sgomento.
Così all’Oca, nelle cascine attigue e nei paesi vicini, già iniziava a diffondersi la fama del fiö dla Rina, che doveva crescere vezzeggiato e coccolato da molte donne le quali facevano a gara a cullarlo e tenerlo in grembo anche più di quanto non facessero coi loro; è noto infatti che nelle campagne, chi scampa alla morte in quel modo, per giunta ancora in fasce, ha il merito di essere prodigioso e foriero di buona fortuna.
Quando perciò si trovavano a passare di lì in visita o per i loro commerci di galline, prodotti dell’orto, salami e sementi, le contadine chiedevano: “E ‘l Ninu, cum al va?”, informandosi obliquamente su come stava ma intendendo più che altro dire: “Possiamo vederlo?”.
Di questo il Nino, che nel frattempo era diventato il più furbo e vanesio dei bambini dei paraggi, si inorgogliva parecchio e non mancava di farsi trovare pronto per essere ammirato e riverito come un galletto.
“Dèh, ‘mè l’è bèl al fiulìn dla Rina!”
“Al gà dü ögi blü tame al vel dla Madòna!”
“E l’è anca sì ‘nteligènt, sentissi che lengua ch’al gà!”
Tutto questo apprezzare circa la bellezza degli occhi blu e le qualità della favella doveva poi ingigantirsi e assumere connotazioni di assoluto fascino anche fra le bambine, che si dichiaravano innamorate di lui ancora prima di averlo conosciuto. La nomea proseguì poi anche dietro i banchi di scuola e tutto l’affetto che gli veniva offerto, il Nino, col carattere fiero e baldanzoso che si era fatto, non mancava di ricambiarlo. Ne aveva per tutte; prima per giocare poi, finita la quinta classe, anche per qualcosa in più. Se c’era una cosa per cui il Nino era tagliato infatti, erano le femmine. Non si faceva certo sfuggire occasioni di divertimento, perché quel dono era un peccato mortale sprecarlo e se poteva farne felice una, allora perché non farle felici tutte, una generosa missione.
Anziché sfumare dunque il suo charme di seduttore cresceva con lui, e le femmine cresciute anche loro e ormai donne in età da marito, facevano ora a gara per contenderselo. Ma il Nino di sposarsi, ribelle come il suo ciuffo ben alto sulla fronte, non ci pensava neanche per sogno.
“Pòvar ti se mi i tà ciàpi, lazarùn!”, gli diceva inseguendolo la Rina quando lui rientrava la sera dopo essere stato in giro con qualche ragazza.
“Ti ‘t sè cus i dìsan la gènt?”, proseguiva gridando.
“E cus ti vöri ca i dìsan, màma?” rispondeva lui ironicamente retorico “I dìsan ca ‘l fiö d’la Rina l’è ‘l più bèl ca s’era mài vist! La verità!” chiosava beffardo, quando già al riparo dall’ira materna.
Di tutto l’anno però non c’era momento che potesse eguagliare il tempo della monda del riso, quando schiere di giovani fanciulle venivano ospitate all’Oca per il lavoro stagionale estivo, ovvero stare tutto il giorno con le gambe a mollo fino al ginocchio nell’acqua stagnante per pulire il riso dalle erbe cattive. Tanta fatica a poco prezzo richiedeva un diversivo, un sogno, qualcosa che potesse bilanciare il sudore, le gambe gonfie e le punture delle zanzare. Per questo, c’era ‘l fiö dla Rina.
Quando arrivava a cavallo le mondine cantavano ancora più forte sperando di farsi notare e durante la pausa di mezzogiorno escogitavano come andare a prendere l’acqua alla fontana vicino a dove sedeva lui, stando però attente a non farsi beccare dalla mondariso più anziana, la Nanda, la caposquadra, pronta a punire quelle scostumatezze con la stessa verga che usava per dirigerle durante il lavoro.
Ma le mondine, scaltre come sono le donne innamorate, le inventavano tutte e noncuranti di qualche livido in più sulle natiche, arrivavano addirittura a costruire un’alleanza d’amore socialista.
La Pinuccia aveva così annunciato, dopo lungo confabulare nel dormitorio comune: “Dunca fiòli, alura d’acòrdi: ‘dess ca i suma scrivü i nostar nòm ‘nta custi biglietìn, i dùma a la Nanda e lè, al sabat, la matina cuand ca i suma ‘pena svigiaci, na pescarà vün. ‘L nòm scrivü denta ‘l sarà ‘l nom dla fortunà ca cula sëra lì la surtarà ‘nsema ‘l Ninu! Suma capì?”.
Questo dunque il sapido piano delle mondine: tanti biglietti quanti i loro nomi, un’estrazione imparziale a opera della Nanda e una fortunata vincitrice per l’uscita del sabato sera, per ogni sabato sera da lì alla fine dell’estate. Un accordo per tutte e una speranza per ciascuna; ben comune, certo gaudio.
Messa perciò alle strette da un’assemblea di ragazze nel fiore dell’età, anche la severa caposquadra aveva dovuto cedere a tanta ardita affermazione sindacale, che minacciava addirittura uno sciopero collettivo e una sera di giugno, vergognandosi molto, bussava alla porta della Rina per ottenere da lei, come da costume, il beneplacito a quella richiesta bislacca. La Nanda, suo malgrado, si faceva così ambasciatrice di una rivolta che forse oggi le femministe non approverebbero:
‘‘Siòra Rina, mi ‘m vergogni più ca ‘n ladar, ma son da chiedervi sto favùr. Sti mundini i gàn par la testa sulament el vostar fiö! Non son più bòni a travajè! L’è mia pusibal, Siòra Rina, a mi me fàn diventar pazza! La Teresina, cula fiòla che l’era malata, e i eran tri dì ca s’alzava no dal lett, e la mangiava neanche, ecco, mi i gò dìi: -Pòvra Teresina, ti ‘t se bianca ca ‘t pari ‘n cènch! Son da mandarti a casa tua!- E lei? -No! No! No! Nanda, No! – e piangeva -Nanda, a casa no, a casa no, mì i son no malata, mì i son ‘namurà!”.
Sconfessata con quelle parole la malattia d’amore, che aveva colpito anche la giovane Teresina tanto da renderla inabile al lavoro, nella forma del folle morbo scatenato dal figlio, la Rina non aveva altra scelta che appoggiare la rivendicazione delle mondariso, nel tentativo disperato non già di frenare un contagio ormai dilagato, ma quantomeno di riuscire a controllarlo, evitando ulteriori aggravamenti e nuovi colpi di testa.
Mentre il Carlo, suo marito, che seduto al tavolo lì dietro aveva ascoltato tutto e se la rideva sotto i baffi, veniva redarguito “E ti? Cus ti ridi?” gli diceva arrabbiandosi ancora di più “Varda ca ‘l tò fiö l’è fàla grossa stavolta! Altar ca Cavalier! Cul là ‘m vègna sü mascalzun!”.
Senza però darsi del tutto per vinta passava subito all’azione e col piglio pratico delle donne di campagna guardava la Nanda e con un lampo negli occhi le indirizzava un gesto della mano a significare: “Adesso però passami il bastone”. Si dirigeva così verso la stanza del figlio e non perdeva, almeno quella volta, l’occasione di esercitare una memorabile lezione educativa poco teorica.
Se fu per questo o se invece fu per caso non è dato sapere, ma quell’estate di fuoco fu di certo l’ultima in cui le mondine avrebbero fatto a gara per stare da sole col Siòr Nino. A settembre infatti, gironzolando per il paese in sella alla sua Vespa, lui aveva visto scendere dalla corriera una ragazza che osava non degnarlo di uno sguardo e non potendoci credere si era avvicinato: ‘Piacere, Giovanni’.
Lei si chiamava Maria e qualche tempo dopo gli avrebbe confidato che lo sapeva benissimo chi era lui e anche che non lo voleva “Perché tanto lo volevano già tutte”.
A gennaio si erano sposati, per la gioia della Rina e la tristezza delle mondine, che la Maria aveva messe tutte in riga anche senza bastone. Anni dopo poi, quando il Nino era ormai diventato Cavaliere, lei avrebbe sentenziato: “L’è mi ca i duvivü fàmi Dama”, “È me che dovevano farmi Dama!”.
La Rina, avesse potuto sentire quelle parole si sarebbe certamente trovata d’accordo, mentre il Carlo avrebbe riso sotto i baffi, badando a non farsi sgridare.
Alessandra Bordino nasce a Novara nel 1985 e appena può l’abbandona. Dopo la maturità classica, si diploma in Teatrodanza alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, si laurea in Lettere e Filosofia e successivamente inizia a lavorare in Italia e all’estero come danzatrice e performer. Nella scrittura è fortemente influenzata dalla sua formazione artistica coreutico-teatrale e dal suo rapporto di amore/odio con la città natale, nella quale è recentemente tornata a vivere e dove risiede tuttora, grata che sia un luogo di sempre fertile alimentazione della propria inquietudine.
Enrico Graziani Venuto al mondo nelle sconfinate steppe della Puglia settentrionale, colà cresciuto e pasciuto, si è poi, poco più che imberbe, trasferito nella Città Eterna, per motivi prima di studio, poi di lavoro, poi di lavoro e di hobby. Gli stessi motivi, prima di studio, poi di lavoro (la fisica delle particelle elementari), e di hobby, lo hanno portato ad eleggere Ginevra e il Giappone quali suoi domicili alternativi (e quindi quali secondi palcoscenici fotografici). Passa il suo tempo (scarsamente) remunerato a cercare cose troppo piccole, astruse, deboli e sfuggenti perché possano essere raccontate a parole (e men che meno fotografate). Passa il suo tempo che nessuno si sognerebbe di remunerare cercando associazioni, fotografiche e fotografabili, tra parole e immagini. Per esempio, fotografando ossimori. Oppure immortalando didascalie. Oppure dedicandosi a ciò che immortale dovrebbe essere per definizione, ma spesso si sofferma sull’immorale e se lo fa bastare.