Le città tra arte e marginalità
I muri di Geco
La sindaca Raggi ha "smascherato" Geco, uno dei writer più presenti a Roma: ma davvero la street art è solo una questione di decoro urbano? E se invece fosse una risorsa? O la nuova testimonianza della disperazione metropolitana?
Il gesto più cattivo, per la sindaca Raggi, è stato svelare il suo nome, Lorenzo Perris, e il suo indirizzo a Largo Preneste. Ora questo Fantomas dei graffitari perde gran parte dell’alone di mistero legato a quel nomignolo, Geco, con cui firmava le sue spericolate apparizioni sui muri di Roma e altre città europee. E disinnesca il fascino dell’anonimato che proteggeva le sue imprese. Non ha più niente da spartire con Banksy, star internazionale dell’arte da muro, da cui del resto lo separava già un baratro di talento, quotazioni di mercato e notorietà. Al massimo potrà confrontarsi a suo rischio con la leggenda di Zorro, che però già all’inizio del film mostrava la sua vera identità agli spettatori e comunque poteva contare in partenza sul favore unanime del popolo oppresso, mentre sul valore liberatorio ed esemplare delle opere di Geco il ventaglio delle opinioni, come conferma la valanga di commenti pro e contro dei social, raccoglie umori contrastanti.
Il calcolo più stupido e spudorato è stato però il modo con cui è stata annunciata e pesata sulla bilancia l’operazione condotta da un comando ispettivo di vigili, che sventola l’indecorosa e anacronistica bandiera di nucleo per la tutela del decoro urbano. L’averla comunicata alla stampa quindici giorni dopo averla effettuata, proprio in coincidenza con un altro intervento, lo sgombero della banda di irriducibili della curva laziale che occupava una casa dismessa dall’Inail al Tuscolano. Una sbilenca simmetria da opposti estremisti che da sempre caratterizza le azioni legalitarie della sindaca grillina. Come se si potesse usare lo stesso metro per una combriccola di violenti neofascisti e le spericolate avventure estetiche spray di un ragazzotto antagonista.
Ancora più avventata, infine, l’idea, di avventurarsi, senza cognizione di causa e piglio punitivo, su un terreno minato e sdrucciolevole come quello dell’arte di strada. Sperare di separare i buoni dai cattivi, i vandali dai creativi, in nome della città. Specie di una città come Roma, spesso ottusa quando si adegua al parere dei benpensanti, che sull’arte di strada non ha avuto in passato la vista molto lunga. Basta ricordare l’insensato trattamento riservato negli anni Ottanta a Keith Haring, uno dei più geniali interpreti del settore, incoronato dopo la morte tra i maestri del Novecento.
A ricordo del suo soggiorno romano, quando già la sua fama stava decollando, si lasciò alle spalle due affreschi, uno sul ponte del Metrò al Flaminio, l’altro sulle scalinate del Palaexpo, entrambe cancellati come offese al decoro. Opere che adesso varrebbero milioni di euro e che altre capitali europee hanno avuto il buon senso di preservare e valorizzare.
Certo quarant’anni dopo la situazione è molto cambiata e Roma è diventata uno dei centri pilota della street art europea. E la street art è un’attrazione turistica, forse di nicchia, ma sempre più gettonata. A seguire i consigli delle guide più aggiornate e seguite non solo dal pubblico giovane, almeno tre sono le chicche da non perdere: l’affresco ritagliato da William Kentridge sugli strati di smog lungo i muraglioni del Tevere a immortalare i trionfi e le cadute di Roma; il campionario di murales sulle facciate di un quartiere semiperiferico come Tor Marancio; e il museo dell’Altro e dell’Altrove, scrigno di oltre quattrocento opere d’arte, sorto sulla Prenestina all’altezza del Raccordo per impulso di Giorgio De Finis, in un ex fabbrica di salumi occupata.
Tre esperienze molto diverse tra loro che hanno in comune un evidente travaso dai territori dell’arte codificata a quelli dell’arte urbana. Una contaminazione che rende però ancora più confusi i confini dei due linguaggi, più problematiche le distinzioni, confluendo nel più vasto e indeterminato mare di eccezioni e travisamenti che regola l’attuale gestione del sistema dell’arte.
Esemplare la difficoltà di inquadrare l’attività di un performer come Geco, che a sua volta naviga sui fragili crinali degli stili in cui l’arte di strada si è frammentata.
A fermarsi alle mappe certificate dai geografi patentati dell’arte di strada, Geco andrebbe classificato nella tribù dei writer, un gradino al disotto della posizione e dei titoli riconosciuti agli artisti che usano i muri sfruttando e reinterpretando i codici tradizionali della pittura. E addirittura alla sottotribù dei taggettari, che interviene sulle superfici metropolitane, limitandosi a usarle come lavagne su cui deporre come uova le proprie sigle, più o meno graficamente rielaborate.
A complicare le cose sta il fatto che poi anche Geco scantona, muovendosi come un cavallo al gioco degli scacchi, ad invadere il campo dell’arte concettuale: aggiungendo ad esempio messaggi scritti e parole d’ordine alla sua firma. Oppure dirottando verso altre discipline di regolata trasgressione, come quella dei climber: per perfezionare e dilatare la visibilità dei suoi interventi e giustificare il suo nome di battaglia Geco accetta il rischio di scalate e discese dall’alto per tappezzare con i suoi messaggi muri e terrazzi altrimenti irragiungibili.
Inutile chiedersi: ne valeva la pena? O rimuginare se oltre alla accusa di vandalismo perché sporca intonaci senza permesso bisognerebbe addebitare a Geco anche il cattivo esempio, come con altre sfide giovanili che corredano d’orrore le cronache nere: camminare sui cornicioni, attraversare di corsa strade di scorrimento, e così via? Ci piaccia o no, questa non è che una delle tante voci spontanee con cui la città ci urla in faccia il suo disagio, la sua rabbia, la cattiveria che riserva ai meno privilegiati; una voce che ci sussurra i suoi slanci di vita, i suoi atroci sberleffi, persino le dichiarazioni d’amore. Buttarla sul lecito e sull’illecito è quasi sempre uno scatto di rassegnazione o cattiva coscienza. Pessima soluzione per chi aspira a governare la complessità di una metropoli di dilatate periferie come Roma. Buttarla sul bello o sul brutto, poi, è un giochetto sterile e un po’ipocrita, se si resta in disparte. Anche se saper riconoscere un artista davvero bravo da uno che segue scorciatoie o imbroglia le carte non guasta al momento giusto, neppure per l’arte di strada.
Ecco, per non insabbiare in polemiche scontate e senza frutto, bisognerebbe affidarsi più all’ascolto che alla vista. E rivolgersi all’arte di strada, spogliandola delle stratificazioni di singole ambizioni e licenze autoriali. Come una creazione collettiva, corale. L’espressione di una comunità inappagata che smargina oltre le righe.