A proposito di "Foto di classe"
La scuola in finestra
Il libro di Giuseppe Grattacaso sulla scuola ai tempi del covid è costruito sul continuo scivolamento del reale nell’affettivo. Per rispondere alla domanda: come è possibile valorizzare questo tempo, al di là della presenza fisica?
Se, in epoca di coronavirus, distanziamento e chiusura si rendono necessari a fini di protezione individuale e collettiva, Foto di classe (il libro di Giuseppe Grattacaso edito da Castelvecchi), strutturato in una serie di articoli scritti durante il periodo del lockdown di marzo e aprile scorso, ruota attorno ad un quesito, al quale Giuseppe Grattacaso, che è insegnante e poeta, tenta di offrire una risposta: come è possibile valorizzare questo tempo, come potersi sentire affettivamente vicini anche dietro lo schermo di un pc, al di là della presenza fisica?
La situazione del Covid-19 offre all’autore l’occasione di mettere il focus anche su questioni più generali relative a distanze e chiusure che la scuola, l’insegnamento e gli adolescenti vivono.
Come può il mondo della scuola apprendere dall’esperienza per essere più accogliente, ospitale, per trovare la vicinanza necessaria all’insegnare?
Foto di classe è costruito sul continuo scivolamento del reale nell’affettivo: didattica a distanza e didattica come distanza, ultimo banco reale ed esistenziale, scuola come spazio architettonico e come luogo interno, finestra reale, la cui apertura consente il ricircolo d’aria e limita la diffusione del contagio, e finestra della mente, che si ossigena grazie all’apertura, all’incontro con il mondo di fuori, alle distrazioni e al tempo perso…
«È bene aprirle le finestre” dissi allora ai ragazzi e d’altra parte lo ripeto spesso. Ogni tanto fa bene rischiare di perdere qualche parola dell’insegnante guardando fuori, scoprire che in fondo l’esterno non è così cattivo, anche visto da qui, che oltre la finestra c’è un giardino (fortuna!) e ci sono i rami di un albero e sopra qualche volta c’è anche un usignolo, e se allunghiamo il collo possiamo vedere il cielo. Ogni distrazione, in fondo, ci fa scoprire che esiste altro e, dopo un po’, ci riporta al consueto con più desiderio di conoscere».
A quella della finestra si accosta, per contrasto, la metafora dell’anaerobiosi (condizione di organismi che vivono in assenza di ossigeno), proposta in apertura del libro per descrivere la situazione degli studenti durante il lockdown.
Se la finestra evoca una comunicazione, un ponte tra interno ed esterno, l’anaerobiosi fa immaginare spazi fisici opprimenti, come mura domestiche prive di fessure, e spazi psichici altrettanto claustrofobici, dove è impossibile respirare.
Massimo Recalcati, utilizzando il simbolo del muro, ha confrontato la segregazione come espressione della pulsione securitaria e conservatrice tipica delle nuove melanconie, con il confinamento imposto dal Covid necessario alla tutela della vita individuale e della comunità.
Siamo di fronte ad un ribaltamento di prospettiva: la tecnologia, fino ad ora considerata qualcosa di tossico, diventa, in tempi di lockdown, il luogo possibile della relazione. E gli “adolescenti da videogames”, quelli ritirati e solitari, quelli impauriti dal contagio e la cui paura è la punta dell’iceberg di una già presente difficoltà alla vicinanza affettiva, possono, in questo momento storico, insegnarci il rispetto delle regole del distanziamento, la buona distanza.
In un capitolo conclusivo, dall’avvincente titolo “Un topo in ogni aula”, chi scrive è alla ricerca di un’alternativa alle braccia tese, agli abbracci, alla presenza fisica. Il problema non è tanto la didattica a distanza, e non c’entra poi molto con lo schermo di un pc, il problema è la didattica in sé (“la didattica è già distanza”). Nuovamente, l’interesse si sposta dalla contingenza per esplorare i territori scolastici e la figura dell’insegnante.
Nel libro, nascosto tra i ritratti di molti adolescenti, intravediamo l’insegnante che l’autore è, quello che siede e osserva dall’ultimo banco; lo incontriamo soprattutto nell’ultimo capitolo, quello più intenso, perché parla della “sua” poesia.
«L’Ultimo Banco, l’ultimo vicino alla finestra, quella da cui scivolano giù le parole per salvarsi… nel ripiano sotto quel banco c’è sempre un libro di poesia».
La poesia, con la sua musicalità, le sue parole corporee, le sue immagini che toccano, diventa l’abbraccio impossibile da dare, un luogo caldo nella lontananza. È la parola dell’insegnante ad essere poetica, e sarebbe molto bello e necessario che fosse sempre così, e in ogni scuola… una parola che apra universi inconsueti.
«Le aule igienizzate, i banchi distanziati, le mascherine indossate e un topo gettato nella mischia. Che ci faccia fuggire, che ci faccia rimanere, che si faccia inseguire, che ci faccia ritrovare le parole».
* Ilaria Innocenti è psicologa e arteterapeuta, vicepresidente di Jonas Firenze e di C.R.E.T.E. Arteterapia