Marco Vitale
Gli scritti di Jacques Dupin

Enigma Giacometti

La stupefacente vicenda del grande artista, sempre alle prese con l'incessante operare, indagata tra oscurità e illuminazione dal poeta francese che seppe approssimarsi alla sua verità. Ora in un’antologia di testi a cura di Gilberto Isella

«Una sera, al caffè, Giacometti guarda Annette [la moglie, n.d.r.] con insistenza. Lei si stupisce: “Perché mi guardi così?” “È perché oggi non ti ho vista”. Annette aveva posato per un intero pomeriggio davanti a lui. E lui non aveva visto Annette, bensì lo sconosciuto, il modello. L’essere vicino diventa l’estraneo, lo sconosciuto per eccellenza che gli rivela l’uomo e il mondo come sconosciuti, che rivela Giacometti a se stesso come sconosciuto». Questo episodio insieme ineffabile e rivelatore è tratto da una raccolta di scritti giacomettiani del poeta Jacques Dupin che esce in italiano a cura di un altro poeta, il ticinese Gilberto Isella per le eleganti, pure ticinesi, Pagine d’arte (Alberto Giacometti testi per un approccio, Tesserete 2020, 107 pagine, 18 euro). 

Poeta di radice surrealista – la sua prima raccolta aveva visto la luce nel 1950 con il viatico di René Char – Dupin collaborava con la rivista “Cahiers d’Art” quando fu inviato a intervistare il maestro bregagliotto nel suo leggendario atelier di rue Hyppolite Maindron. Un luogo minuscolo e misterioso, poverissimo, che affascina e turba ogni visitatore; Giacometti lo occupa dal 1926, da quando emancipandosi dalla scuola di Antoine Bourdelle dà inizio a un libero, tormentato percorso che lo porta dalle sperimentazioni cubiste all’adesione al surrealismo, da cui pure insoddisfatto si allontana a metà degli anni Trenta, dopo l’inevitabile rottura con Breton e il ritorno alla figura. A quel luogo esiguo ma potenzialmente infinito, su cui inchiocciola una corte, e successivamente il quartiere di Montparnasse e poi, per cerchi più larghi l’abbraccio delle vie di Parigi, Giacometti resterà fedele per tutta la vita, anche quando i riconoscimenti della critica e dei grandi collezionisti avranno fatto di lui uno degli artisti più importanti del secolo. E questo è già nel ’53, quando avviene l’incontro con Jacques Dupin. 

Il giovane poeta – ha allora 26 anni – resta affascinato dall’enigma che emana a un tempo dall’uomo e dalla sua opera e il suo articolo sui “Cahiers d’Art” ne dà riscontro, inaugurando un’amicizia destinata a venir meno solo con la morte dell’artista. Di lì a poco infatti Dupin inizia a lavorare per Aimé Maeght, il principale gallerista francese di Giacometti, diventando presto il direttore delle sue edizioni d’arte. Così è proprio a Dupin che Maeght decide di affidare la stesura della prima monografia su Giacometti, e il lavoro avrà larga base negli incontri che si svolgono a cadenza settimanale in rue Hyppolite Maindron e negli appunti che li fissano sulla carta nel tentativo di costruire un ordine e una “leggibilità” tanto dell’opera come delle sue ragioni. Ma è un tentativo che si scontra con la natura stessa di un’arte che si pone come un unicum tra le poetiche del Novecento, con il suo assillo nel venire a capo di una realtà che si rivela intangibile, ma a cui pure l’artista non può rinunciare. 

L’ascesi di Giacometti, secondo l’accezione etimologica della parola, mira incessantemente a questa “presenza”, (il temine è caro a un altro lettore d’eccezione di Giacometti, il poeta Yves Bonnefoy), una presenza che sfugge e lo lascerà insoddisfatto, come attestano tutte le sue interviste, fino alla fine dei suoi giorni. Nel porsi in ascolto di questo esercizio senza soluzione Dupin è incantato e scosso e la ricchezza del materiale che raccoglie finisce per costituire remora e risultare ai suoi occhi inutilizzabile per le aporie a cui conduce. Decide di rinunciare al libro ed è solo la risentita reazione di Giacometti, che in quel giacimento di epifanie e aforismi, di oscurità e illuminazione trova invece riscontro, a fargli cambiare idea, e accettare l’incompiutezza necessaria di una scrittura irrisolta e in divenire quale momento massimo di approssimazione alla verità dell’artista. È qualcosa che a ben vedere ha a che fare con il mallarmeano naufragio della parola, venendo così ad assumere un valore cui il poeta difficilmente può rinunciare. 

Il libro, con uno splendido corredo di immagini, esce nel 1962, l’anno che consacra Giacometti con una grande esposizione alla Biennale di Venezia, ma Dupin non finirà più di scrivere sul suo artista. L’antologia appena tradotta fonde più materiali e si apre plasticamente sulle mani veloci e nervose dello scultore che si muovono sull’argilla, tra le tonalità d’ombra che informano l’atelier e velano la sua stessa persona: la ricerca è continua, mobile, tormentata dal dubbio e dai ripensamenti; «opera incessante più che opera incompiuta» che nel suo non concedere all’inganno delle apparenze «sembra elevare la distruzione a metodo». La scrittura ingaggia così un corpo a corpo con l’opera, avvicinandosi per quanto è possibile alle ieratiche figure che hanno la «pensosa lucidità degli dei», ai quadri che prediligono le sfumature del grigio e dell’ocra e fanno vibrare la distanza e la ferita del soggetto ritratto, alla felicità delle linee che tratteggiano i disegni. Ed è bravo Gilberto Isella, già traduttore dell’opera in versi di Dupin (Écart / Scarto, Lugano 2011) a restituire alla pagina, nella bella versione italiana che avvalora il libro, le sue accensioni da poème en prose, il ritmo e la misura, le intime dissonanze, la tensione costante a definire immergendosi, e rispecchiandosi, nella stupefacente vicenda di Alberto Giacometti. 

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