Al Casino dei Principi di villa Torlonia di Roma
Tutti a casa Attolico
Una bella mostra ricostruisce una parte della magnifica collezione di Bianca Attolico, protagonista della vita artistica e culturale della capitale, appena scomparsa. Da Fausto Pirandello a Mario Schifano, da Jannis Kounellis a William Kentridge, c'è il diario di una passione
«Quello che cerco è l’impronta di una riflessione sul senso stesso dell’arte… Forse cerco ancora il quadro della mia vita, non cerco il possesso. È un processo infinito, quasi una rincorsa verso l’impossibile». Così Bianca Attolico (1931-2020), esperta d’arte, gallerista, protagonista della vita culturale e mondana della capitale, recentemente scomparsa a 89 anni d’età, spiegava l’origine e il significato della collezione che ha costruito e si lascia alle spalle. Un piccolo grande museo, che una mostra, La Signora dell’arte, appena inaugurata al Casino dei Principi di villa Torlonia e in cartellone fino al 19 gennaio, prova a rimettere parzialmente in scena per renderle omaggio.
Quella ricerca d’impossibile l’ha portata a raccogliere quasi trecento lavori di grandi firme e talenti emergenti, che lei stessa aveva contribuito a lanciare. Impresa iniziata al fianco del padre, Tommaso Lucherini, medico di successo, e proseguita in modo più diretto e calibrato sui suoi gusti.
Bianca Attolico li teneva tutti esposti, ad invadere ogni ambiente, persino cucina e bagno, nella sua casa ai Parioli, aperta a un continuo via vai di intellettuali ed artisti. Tutti a vista, come le pagine di un diario personale che continuava ad aggiornare, a rileggere, a volte a correggere. E a condividere. Orientandosi su formati e modalità espressive che potessero trovar posto nelle stanze di quell’abitazione affacciata sul verde di villa Balestra. Circondare in uno stimolante abbraccio lei e i suoi ospiti, catturare e reclamare attenzione. Altra differenza da molti collezionisti del contemporaneo, che assecondando il gusto dominante delle istallazioni, delle performance e della videoarte, accumulano opere che poi sono obbligati a conservare in depositi e magazzini.
Già, la presenza e la vista. Sono i fili d’Arianna che il curatore Ludovico Pratesi ha riproposto con rispettoso rigore per allestire la mostra di villa Torlonia. Una coproduzione voluta da due amici e compagni di brindisi e vernissage di Bianca Attolico: la soprintendente comunale, Maria Vittoria Marini Clarelli, che ha messo a disposizione quella piccola e preziosa residenza primo Ottocento, per avvicinarsi il più possibile alle dimensioni e alle atmosfere della casa dei Parioli, e il presidente della Quadriennale, Umberto Croppi, deciso ad ampliare con quest’iniziativa parallela e altri affacci collaterali il campo di riferimento della rassegna, ideata prima della sua nomina, che sta per partire.
Una simulazione dunque. Corretta da due scelte. Inevitabile la prima: per dar posto e respiro alle gemme della collana Attolico ne sono state sfilate e rimesse in vista una sessantina, circa un sesto. Studiata la seconda: disporre in ordine cronologico i lavori per dar conto del lungo arco di storia percorso dalla collezione nel prendere forma e consistenza, e far capire come e da quale angolazione Bianca Attolico si è mossa sulla scena dell’arte, ed in particolare su quella romana, seguendone le svolte, l’alternarsi di movimenti ed autori, senza vincoli di piaggeria e convenienza, che non l’intento di aggiudicarsi a buon prezzo le opere da acquistare. Seguendo soprattutto la bussola del proprio gusto. Come faceva sempre nell’avviare, alimentare e a volte orientare con le sue battute in romanesco, le sue appassionate convinzioni controcorrente le vivaci discussioni che animavano il suo corteggiato e ambito salotto, dal quale solo i politici erano banditi. E, negli anni in cui l’ha rilevata e diretta, nel gestire la Galleria la Nuova Pesa, dove sono sfilati molti degli artisti confluiti nella raccolta. Spesso talenti agli esordi, scoperti anche grazie alla sua curiosità e al suo fiuto.
Una libertà di approccio senza schemi e complessi che questa mostra incanalata su un marcato effetto di immedesimazione, riconsegna al visitatore non addetto ai lavori, come un invito al piacere spontaneo delle emozioni e degli occhi. Ne approfitto anche io per smarcarmi dal copione di una recensione da manuale. E soffermarmi su un paio d’opere, che mi hanno toccato più a fondo. Due immagini che più sento avvicinarsi a quella ricerca di un quadro per la vita di cui parla Bianca Attolico. La prima è una piccola tela firmata da Fausto Pirandello esposta nella prima sala allestita per documentare l’impronta che il padre, un medico appassionato d’arte, ha lasciato, nella nascita e nel cammino di gestazione della raccolta. È accanto ad una seconda tela più grande e più conosciuta, una spiaggia anni 50, dello stesso Pirandello, circondata sulle pareti da capolavori di altri geniali maestri della scuola romana anni ’30 e del futurismo. Una visione senza figure, immersa in un cupo e spesso magma di sfumature terrose. Uno strato calpestato di colori da cui spunta solo il bianco sporco di qualche avanzo di lisca di pesce. Il passaggio della morte e il suo confine a ridosso della vita reso concreto e visibile dai relitti di una cena, sputi lasciati in terra a corrodersi fino a scomparire come orme.
Il secondo è un quadro di un Mario Schifano, non ancora al vertice della fama, non ancora precipitato nella nausea e nel disincanto in cui annegherà la sua vita. Datato 1965. Quasi un monocromo. Uno sfondo di smalto bianco, corroso ai bordi da irruzioni di celeste e di rosa e solcato da segni scuri. Un paesaggio di alberi dai rami scheletriti e altri interventi grafici che sembrano ricalcare i contorni di una mappa di città moderna. Una pittura che parla sottovoce e non si lascia irrigidire entro schemi seriali.
Altri visitatori si porteranno sicuramente appresso ricordi diversi. Altri dal palato più sofisticato apprezzeranno l’abile montaggio cronologico, con cui la mostra documenta e offre un ripasso di tutte o quasi le scuole e le tendenze che si sono alternate sulla scena dell’arte e in particolare sui palcoscenici di Roma.
C’è solo l’imbarazzo della scelta. Uno spettacolo di pezzi tutti o quasi di alta qualità che ti assediano di suggestioni e incertezze spaesanti lo sguardo, come avveniva in casa Attolico. Può essere la limpida rincorsa all’essenza di un mondo in movimento di uno splendido Balla 1917 (nella foto in alto). O l’inquietante sintesi di un segno, che attraversa come la geometria di un pensiero impuro il fondo di una tela del primo Giulio Paolini. O la cresta ovale, che nuota, nero su nero, in un piccolo cretto di Burri. O il ramo di rosa, solo un ombra nera sul bianco, che testimonia gli ultimi passi da pittore di Kounellis (nella foto accanto al titolo), prima di convertirsi alla teatralità degli oggetti e dei materiali riciclati. O il drammatico appello sul destino degli ultimi di Khalifa un artista migrante, tra le scoperte più recenti di Bianca Attolico: la foto di una vecchia bicicletta data alle fiamme. O il ricamo di segni sovrapposti alla foto del volto patinato con cui Francesco Vezzoli rilegge il mito della modella Veruschka. Via via fino all’ultimo acquisto: uno schizzo del fatale abbraccio di Apollo e Daphne, disegnato da William Kentridge, e acquistato al volo dopo il taglio del nastro del suo corteo di fantasmi ritagliato sulla coltre di smog che imbratta i muraglioni del Tevere.
La mostra si risolve in un rito di partecipazione che ha però il retrogusto amaro di un canto del cigno. Di un addio irreparabile. Inutile farsi illusioni. La casa dei Parioli è stata ormai venduta. I suoi tesori d’arte sono rinchiusi in magazzino. E quasi sicuramente, nonostante gli sforzi delle due figlie, finiranno dispersi.