“Monte Stella” di Luigi Fontanella
Polittico del distacco
Non è indifferenza o rinuncia, ma «libertà interiore nel disporsi all’ascolto di quanto riguardandoci ci oltrepassa». Questo è per il poeta salernitano, docente negli Stati Uniti, l’esercizio della poesia. Come in questo viaggio nella memoria attraverso la raccolta di poesie 2014-2019
È forse un sovrapporre non canonico, o se vogliamo una figura del caso, ma riesce difficile resistere alla tentazione di far coincidere le inquietudini e i silenzi del nostro tempo recente con questa «caverna popolata di ombre che si abbracciano» nei modi e nei tempi di una poesia a misura delle domande prime. C’è una parola, fin dall’inizio della nuova raccolta di Luigi Fontanella (Monte Stella: poesie 2014 – 2019, Passigli, 107 pagine), che sembra funzionare come chiave d’accesso, dispositivo offerto dall’autore per avvicinarsi al suo mondo, o meglio alla ricostruzione poetica di esso. La parola è distacco e ha pregnanza nel lessico della letteratura mistica tre-quattrocentesca dove non sta per indifferenza o rinuncia, ma per libertà interiore nel disporsi all’ascolto di quanto riguardandoci ci oltrepassa: un’attitudine dunque profondamente connessa con l’esercizio della poesia. Ed è, tale distacco, motivo non ultimo del fascino che ci fa seguire il viaggio nella memoria a cui il poeta ci convoca, facendoci «spettatori di una breve stagione / mentre la luce va svanendo / senza farsi notare».
Colle della poesia tra i rilievi che contornano Salerno e linea di separazione tra l’oscurità di un entroterra incognito e l’abbraccio luminoso del Golfo, il Monte Stella eponimo sta come punto di partenza e di riferimento poi costante di questo viaggio: il poeta bambino lo vagheggia dal balcone della sua casa ma non ne salirà mai il pendio che pure potrebbe offrirgli una vista incomparabile su tutto quell’azzurro. I suoi passi lo porteranno invece a Roma, studente alla Sapienza negli anni Sessanta e soprattutto negli Stati Uniti dove sarà docente in diverse importanti università (attualmente è professore emerito della Stony Brook University di New York), divenendo riferimento indispensabile (e indispensato) per la poesia italiana oltreoceano. Quanto non è stato fatto o tentato è dunque ancora lì, in un’altra idea/dimensione del tempo; vive come possibilità intatta e insieme come radice della memoria. E dicendo questo penso di toccare un tema di fondo della poesia di Fontanella in cui coesistono – lo nota molto bene Sebastiano Aglieco nella densa prefazione al libro – «un tempo cronologico, inesorabilmente diretto verso l’abisso» e «un tempo circolare che sempre ritorna, in realtà maschera ingannatrice di un tempo infinito». Quanto spiega anche la compresenza di registri lirici e narrativi, questi ultimi probabilmente influenzati da una frequentazione non episodica della poesia nordamericana.
Si apre allora, il viaggio di Luigi Fontanella, «in una scorza di fuga. / Al tremore dei padri / di fronte ai nemici» per un’Italia del Sud corsa da eserciti stranieri nei giorni drammatici dell’ultima guerra, e trova una prima decisiva stazione nel tempo di una “giovane madre” in luoghi destinati alla perdita fuori che nello spazio della memoria, se è vero che «Quella lunga strada oggi è / poco più di un vicolo. Ora / nessuno ricorda più niente. Nessuno / attesta la tua antica appartenenza». Di qui la necessità della poesia, della sua tela che ricuce e raccorda permettendo al tempo di coagulare secondo le pascaliane “ragioni del cuore” e intanto tocca, nella su ricordata circolarità, le intermittenze che gli sono care. È un possesso insieme precario e definitivo senza che i confini tra l’una e l’altra contingenza appaiano mai netti, e questo spiega l’inquietudine, ma anche la luce che ne discende e attraversa la pagina: «Poco fa / c’erano forse più possibilità. / Ma ecco un battito d’ali: una rondine allegra e smemorata. / (Poco fa. / Non chiedermi altro)». A questo modo il “polittico” in cui si struttura la raccolta (così il poeta in una nota all’edizione) si dispone a più contrasti, cortocircuiti, scorciatoie, presagi che insidiano la perfezione, se in aspetto di sogno si dà come in questo testo che trascrivo nella sua interezza: «Apparecchiamo la tavola. / Ci sono i profumi, i fiori, le essenze, / l’infula, le candele, gli sguardi incrociati. / I convitati sono seduti uno accanto all’altro, / uno di fronte all’altro. Fermi. Lattei. // Una musica e un cinema di madreperla. // Tutto caro e dolente. Tutto / lucignolo e pallore. Falene, / sorrisi come tanti fili elettrici / e mani bianchissime, / come la cera delle candele / che guizza e brucia in silenzio».