Piero Fittipaldi
Parole e ombre/6

Piccolo porno. Molto star

«Mentre mi portavo la mano ai baffi, i suoi occhi, come al rallentatore, si ridussero a due fessure. Con la stessa velocità mi tastavo con i polpastrelli sotto il naso. Non c’erano più. I miei rigogliosi capelli da labbra erano scomparsi»

Immagine di Stefano Restivo

La nuova scena era prevista sulla spiaggia di quel buco di culo di Stato in cui era ancora legale girare porno all’aperto come dio comanda – si fa per dire – senza incorrere in denunce.

La rossa che stava per condividere la scena con me si sarebbe stesa a prendere il sole. Io, arrivando a nuoto, l’avrei trascinata fino a un materasso sul bagnasciuga, non si sa portato da chi, dove l’avrei posseduta come un martello penumatico.

Bravi, proprio bravi questi sceneggiatori, non c’è che dire.

Mentre aspettavo il Ciak si scopi, me lo menavo per mantenerlo arzillo e guardavo fisso negli occhi il nuovo pischello. Aveva solo qualche particina, ma sembrava promettente. Con i miei consigli avrebbe fatto il salto di qualità.

Mi ero accorto di averlo davanti nello stesso momento in cui mi rivolse la parola.

“Allora in culo alla balena per la prossima scena”, aveva detto.

L’avevo guardato serio, smettendo per un attimo di massaggiarmi il Kraken.
“Ragazzino, per noi in culo alla balena è un anale con una donna obesa”.

Avevo conquistato la sua curiosità, era assetato di sapere, e forse non solo.

“Dimmi ragazzino, quanti anni hai?”.

Ne aveva circa la metà dei miei, e dopo un filmino amatoriale per cui il padre della coprotagonista ancora lo cercava per esprimergli il suo parere sull’argomento, questa era la sua prima esperienza da professionista.

Era il momento di capire se aveva la stoffa.

 “Tu vuoi sfondare, ragazzino?”.

“Sì”, aveva annuito, senza un attimo di esitazione.

“Sbagliatissimo. Nel nostro settore sfondano già tutti. Se vuoi fare grandi cose, non devi solo sfondare. Devi diventare un pornostar”.

Ormai pendeva dalle mie labbra.

“Tu ti senti più porno o più star?”.

Questa volta ci penso un po’ su. “Più porno”.

“Errato. Devi essere più star. Devi diventare l’Al Pacino dei sodomiti. Il Robert De Niro degli onanisti. Il Leonardo di Caprio delle scene a pecora. Poco porno. Molto star”.

A quel punto avevo smesso di massaggiare il mio IBAN il terribile, quel dono di natura che rimpinguava il mio conto in banca, per afferrare il mento del ragazzino. L’avevo guardato attentamente, girandogli il viso prima a destra, poi a sinistra.

“Ma ti cresce la barba? E i baffi? Dove cazzo sono i tuoi baffi?”.

Ondeggiavo la testa in segno di disapprovazione: non li aveva. Non aveva nemmeno l’accenno di un paio di fottutissimi baffi da pornostar.

“In che senso, i baffi?”, chiese ingenuamente.

“Il segreto sono i baffi. Senza di loro sei zero. Freddy Mercury senza baffi? Inesistente. Hitler? Un bambino capriccioso. E John Holmes? Un panettiere di provincia. Stammi a sentire: cura i tuoi baffi più di quanto non curi il tuo uccello”.

Il ragazzino aveva iniziato a guardarmi incredulo, fissava il mio labbro superiore. Vedevo dal suo sguardo che stava iniziando a capire.

“Esatto, proprio come questi”. Mentre mi portavo la mano ai baffi, i suoi occhi, come al rallentatore, si ridussero a due fessure. Con la stessa velocità mi tastavo con i polpastrelli sotto il naso. Non c’erano più. I miei rigogliosi capelli da labbra erano scomparsi. Niente baffi. Nemmeno un accenno di fottuta peluria. Erano scomparsi. Ero. Tutto. Liscio.

“Dove sono i miei baffi?”. L’urlo esplose in faccia al ragazzo. “Non devi dirlo a nessuno, hai capito? A nessuno!”.

Mentre il ragazzo faceva no con la testa, mi chiamarono per andare in scena e già avevo capito che, senza quella folta virilità, il mio gioiello non avrebbe voluto saperne di timbrare il cartellino. E infatti.

Arrivai sul set con una mano davanti alla bocca e una in mezzo alle gambe.

“Eccolo, sta nascondendo il mostro”, disse il cameraman rivolta all’attrice sulla sabbia.

La battuta aveva fatto ridere tutti, solo lei, da come cercava di infilare lo sguardo sotto la mano, sembrava un po’ preoccupata.

“Robin scusa, devo andare un attimo in camerino”, parlavo direttamente al regista, era lui che comandava.

“Che stai dicendo. Non si capisce nulla. Levati quella mano dalla faccia”.
La allontanai un po’ per far uscire la voce mentre indicavo con la testa la direzione da cui venivo: “Vado un attimo in camerino”. Poi mi rivolsi all’attrice: “Sei salva per altri 5 minuti, Kelly”.

Mi avviai alla roulotte. Alle mie spalle, Kelly urlava di chiamarsi Sally.

Il ragazzino era ancora lì, lo afferrai e lo trascinai dentro con me. Chiusi la porta a chiave, tirai le tende e aprii tutti i rubinetti per coprire le voci.

“Cazzo di un cazzo moscio, tu ora mi aiuti”.

“Ma che è successo?”.

“Ecco che è successo, guarda”. Mi misi a fare l’elicottero ruotando l’elica morbida che mi ritrovavo. Lo spostamento d’aria fece cadere a terra due bicchieri di plastica.

“Come faccio a girare la mia scena così, dimmelo tu, ragazzo”.

“Ma come è successo?”.

“È successo che mi sono caduti i miei durobaffi, e senza quelli il mio elicottero non spiccherà il volo”.

“Cioè?”.

Lo afferrai di nuovo per le spalle, l’elica lo frustò un paio di volte mentre concludeva il suo giro. “Cioè senza baffi non si alza, non si fa duro, lo capisci?”.

“Ma come è possibile?”.

“È possibile che senza baffi non sono io. E se non sono io, non è lui. E se non è lui, io ho finito di lavorare”.

“Ma come fanno a sparire un paio di baffi?”

“Cadono. Cadono, capisci? Se non li incolli bene, cadono chissà dove in questa fottuta Roulotte”.

“Cioè, i tuoi baffi da pornostar non sono veri?”.

“Possono essere veri dei baffi che non crescono, non cambiano e sembrano la coda di una marmotta? Li attacco con la colla ogni giorno”.

“…”.

“Non parlare, aiutami a cercarli”.

Rivoltammo la roulette da cima a fondo, senza trovare niente. Nello scarico della doccia, né in quello del cesso, dove feci controllare attentamente a lui spingendolo a introdurre il braccio fino al gomito.

Il ragazzo mi accese un barlume di speranza soltanto quando si rialzò da sotto il tavolino stringendo qualcosa di peloso. Ma era la mutanda in pelliccia di dalmata per le scene sotto zero.

Dovevo inventarmi qualcosa.

Restammo un po’ a pensarci su. Che il ragazzo uscisse di lì era fuori discussione. Avrebbe potuto raccontare a qualcuno dei miei baffi finti. Per lo stesso motivo, una volta risolta la situazione, probabilmente l’avrei dovuto uccidere.

“Ho trovato”, mi disse. Forse poteva essermi utile a qualcosa, finalmente.

“Cosa?”.

“Ti attacchi i peli del culo sulle labbra”.

Ero completamente liscio e oliato, il ragazzino doveva essere stupido davvero. “Non lo vedi che sono completamente liscio? Mi stai dicendo che tu non ti depili?”.

“Non tutto. Il culo no, ma sei pazzo?”.

Eccola la speranza che cercavo, la fortuna tornava a sorridermi.

“Allora useremo i tuoi”.

Lo voltai e lo piegai sul tavolo, poi mi abbassai per ispezionarlo da vicino. Non volevo credere a quello che vedevo. Batuffoli biondi come pulcini, avevano anche la stessa consistenza. Il sapore invece mi sembrava più amaro.

“Sei biondo anche tra le chiappe, ma da dove vieni?”.

“Mia madre è australiana, mio padre invece non si sa. Mamma è indecisa tra la squadra di football di Melbourne e il maestro di tennis di quel periodo, però quello inglese, perché l’altro era nero, e lei dice che non sarebbe possibile. E poi c’è una piccola ipotesi sul nano norvegese di quel circo di passaggio…”

Stavano bussando alla porta.

“Ma stai facendo il divo? Vieni che tra poco cala il sole”. Era Robin, voleva riprendere le riprese.

“Un attimo e arrivo, Rob, perché non giri un’altra scena nel frattempo?”.

“Manca solo quella del nuovo ragazzo, quello tonto, ma nessuno l’ha visto”.

Feci cenno al ragazzo di non aprire bocca.

“Sarà andato in paese a spassarsela, manda qualcuno a cercarlo. Io vengo subito”.

“Venire subito? Non sia mai, vieni con calma che la scena deve durare mezzo film. Però raggiungici presto”. Per fortuna rideva. Se ne andò chiedendomi di fare presto che Kelly aveva freddo.

Ero nella merda, ero proprio nella merda.

Iniziai a passare in rassegna tutti gli oggetti della roulotte. Doveva pur esserci un surrogato di baffi da superdotato da qualche parte.

Corsi a prendere gli spazzolini da denti. Per fortuna erano due. Il secondo lo usavo per pulirmi bene il culo prima delle scene. Staccai le setole e me le attaccai sul viso.

“Che ne dici?”.

Non funzionavano, troppo corti e con inserti di gomma. E poi erano tutte curve e scambiate.

Mi vennero in mente i miei stivali stringati, erano sotto al letto.

Sfilai i lacci, feci un fiocco e dissi al ragazzo di attaccarmeli bene con la colla.

Bussarono di nuovo alla porta, il ragazzo trasalì e me li incollò all’insù. Stupido di un ragazzo stupido. Di nuovo Kevin, ma questa volta con qualcuno vicino, vedevo le ombre che spiavano dalle finestre

“Senti stiamo aspettando solo te, vuoi venire o cancelliamo la scena, e pure il tuo cachet?”.

“Ecco, ecco, ecco. Ci sono, andate che vi raggiungo”.

“Non ci muoviamo di qui, hai 60 secondi”.

Mi strappai i lacci e misi una penna in mano al ragazzo. “Disegnameli. Non dire una parola, e disegnameli”.

Scesi dalla roulette indossando solo il mio cappello da Texano. Spiegai a Kevin che avevo perso tempo per cercarlo, ma quel tocco avrebbe dato molto alla scena. Mi aveva lanciato un’occhiata veloce, ma sembrava non avesse nulla da ridire. I baffi funzionavano. Sentii il mio drago rosato pronto per volare di nuovo.

Salii sulla barca che mi portò a un centinaio di metri dalla riva. Il copione voleva che da lì mi sarei dovuto buttare per raggiungere a nuoto la rossa. Mentre mettevo un piede sul bordo per tuffarmi, compresi tutto. L’acqua di mare, l’inchiostro fresco. I baffi che si sciolgono mentre raggiungo la riva. La mia reputazione distrutta. Mi sbracciai verso riva per dire a Kevin di bloccare la scena.

Vicino a lui c’era il ragazzo. Sul suo viso adesso si stagliavano i miei baffi. Folti. Pelosi. Perfetti. Su di lui sembravano ancora più grandi e cazzuti. Forse non era così tonto come credevo.

Gettai tutti fuori dalla barca e mi misi al volante, puntando lontano, verso il largo.

Mi guardai alle spalle solo una volta. Nessuno che si sbracciava verso di me. Nessuno che mi implorava di tornare. Tutti i volti erano puntati sul set, dove Kevin stava dando il via alla scena. Da lontano vedevo i baffi ondeggiare fluenti a ogni colpo di bacino, sembrava volessero salutarmi.


Dopo essere cresciuto a cartoni animati degli anni ’80 e libri-game, Piero Fittipaldi prova a darsi un tono laureandosi in economia aziendale. La gioia dei parenti dura molto poco visto che, dopo appena un anno di rispettabili impieghi, decide di seguire la sua passione specializzandosi in scrittura creativa. Da allora lavora come copywriter di agenzie pubblicitarie, firmando campagne di comunicazione per numerosi brand nazionali. Troppo pigro per affrontare un romanzo, si diverte a esplorare la narrativa breve scrivendo racconti. Segni particolari: è una entusiasta papà, ha una rarissima enciclopedia Marvel in 7 volumi e fa colazione col Nesquik.


Stefano Restivo nasce a Roma nel ’57. Ha lavorato come cameraman, attore ed ora è montatore televisivo. Realizza collage, scrive cose brevi, frequenta l’arte, il cinema, le librerie e fotografa. A 50 anni decide di diventare Conosciuto, ma non Famoso. Il suo nome d’arte è UomoImperfetto e costruisce un suo sito internet: www.uomoimperfetto.it. Afferma: «Nella mia prima mostra, Omeopatia Visiva, (2014 – Il Laboratorio di Roma) ho interpretato un’emozione centripeta, a favore dell’anima Con la seconda mostra, Metastasi Mentali (2015 – Il Laboratorio di Roma) l’emozione è centrifuga perché tutto ciò che si crea, frammenta e si moltiplica in maniera incontrollata nella mia testa, viene offerta con forza vitale, in movimento, com’è la mia percezione della vita. Con la terza mostra, Antropolgia del Vernissage (2016 – Il Laboratorio di Roma), rendo un omaggio Sovraesposto e Distorto all’evento, ricordando che bisogna ripassare il giorno dopo”. Della quarta mostra, LeCoDiDè (2017- Il Laboratorio di Roma), hanno detto: «Stefano Restivo ha voluto perlustrare l’identità umana da varie angolature, servendosi della fotografia come strumento, usa lo scatto fotografico per arrivare ad esprimere nuove concettualità scrutando dentro di sé e mostrando l’essenza, la vera essenza. La fotografia diviene così strumento-supporto per dire che il fotografo ritorna #uomoimperfetto e in questa sua veste si reidentifica semplicemente artista imperfetto».
Pubblica le sue foto su: http://www.flickr.com/photos/uomoimperfetto/

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