Parole e ombre/3
Due primitivi
«Tobia si presentò all’ora dell’aperitivo strappandomi a un crocchio d’infettivologi e mi offrì un drink sulla magnifica terrazza dell’albergo affacciata sull’Atlantico»
Immagine di Helo
Ha un’aria quasi felice, in mezzo a tutte quelle donne. Lo sguardo vacuo, velato di demenza senile. Capelli candidi e fini che alle sue spalle Nuria, una splendida ragazza nera alta e magrissima, pettina con riguardo rispettoso. Accoccolata tra le sue ginocchia Haya, la più giovane dell’harem, lo sta sbarbando. Altre ragazze l’assistono nella toilette quotidiana: una cura le unghie, un’altra si prepara a vestirlo.
Conobbi Tobia ai tempi dell’università. Pur frequentando la stessa facoltà, non potevamo dirci amici. Lui era nel giro brillante, pieno di donne, faceva viaggi avventurosi. Io ero un noioso studente modello che non mancava una sessione d’esami. La prima volta che l’incontrai, fuori dall’aula d’anatomia, gli chiesi: “Che corsi segui?”
“Studentesse dei licei e tavoli da gioco,” rispose. Per tutto l’anno accademico non trovammo argomenti comuni.
Mi laureai e mi specializzai in medicina tropicale. Rincontravo di quando in quando Tobia. I suoi studi non progredivano, però lui guidava macchine sportive nuove fiammanti e le cambiava quasi tanto spesso quanto le ragazze che ci scarrozzava. Notai qualcosa, a proposito delle ragazze: man mano che gli anni passavano, in genere l’età delle nostre compagne cresceva e perlopiù le compagne si stabilizzavano. Ma non quelle di Tobia, lui era fermo alle studentesse dei licei: l’età non cambiava, le ragazze di continuo.
Sicché alcuni anni dopo, quando andai in Africa per la prima volta, fui sorpreso di apprendere da un ex-collega che Tobia era finito laggiù. Che ci va a fare un tipo del genere da quelle parti, pensai. Io mi ci recavo per lavoro, una ricerca su alcuni ceppi malarici. C’era un convegno all’hotel Sarakawa, Lomé.
Tobia si presentò all’ora dell’aperitivo strappandomi a un crocchio d’infettivologi e mi offrì un drink sulla magnifica terrazza dell’albergo affacciata sull’Atlantico, sopra la spiaggia di sabbia chiara e palmeti. Era in gran forma. Aveva con sé quattro stupende ragazze nere, giovanissime. Mi raccontò d’essersi messo in affari. Gestiva certi lotti di foresta, esportava legname, organizzava battute di caccia e altri traffici più o meno leciti. M’invitò a cena, ma declinai.
“Alle dieci ho appuntamento telefonico con mia moglie,” dissi.
“Sono sposato, vedi?”. Mostrai l’anulare.
“Che peccato,” fece lui.
“Hai figli?”.
“Due.”
Beh, bastò toccare l’argomento. Ai tempi dell’università, non c’era miglior modo per mettere in fuga Tobia che parlare d’esami. Ora era lo stesso con matrimonio e famiglia. La feci davvero, poi, la telefonata a mia moglie, ma non posso dire che ciò non mi fece pentire della mia scelta. Invidiavo Tobia, l’immaginai a lungo alle prese con quelle quattro. Fui strappato alle fantasie voyeuristiche da un pensiero: non avevamo mai avuto niente in comune, Tobia ed io. Ma adesso una cosa c’era: l’Africa. Non sapevo ancora quant’ero nel giusto.
Negli anni che seguirono viaggiai spesso per i paesi che affacciano sul golfo di Guinea e lo rividi diverse volte. A Yamoussoukro (Costa d’Avorio) trafficava in legname, ma anche in avorio, pellami e chissà che altro. A Port Harcourt (Nigeria) si occupava di rifornimenti alle piattaforme offshore delle compagnie petrolifere che trivellano il Delta. S’era inselvatichito parecchio, nel frattempo. Vestiva all’africana ed era sempre circondato da un gran numero di donne, di solito giovanissime, alcune quasi bambine. Le sue residenze, in cui m’invitò, somigliavano alle courts che usano da quelle parti: compound cintati che racchiudono diversi edifici, perlopiù a un solo piano, dove tutte le donne della tribù governano la casa comune: cucinano, lavano, stendono panni, s’occupano dei bambini, del bestiame domestico e dei campicelli di miglio e mais tutt’attorno. Gli uomini in genere sono fuori, a caccia o a pesca.
Solo che in quelle case di uomini ce n’era uno e basta: Tobia. Quanto alle donne, erano di tutti i tipi. Di qualunque bellezza, di qualunque età. Grasse matrone che rimestavano in pentoloni anneriti, giovani donne impegnate in lavori domestici, svelte ragazzine pericolosamente giovani. Talune scandalosamente giovani. Non so come si regolasse per i bambini, nelle sue courts non ne vidi nessuno.
Trascorsero altri anni. Ebbi occasionalmente sue notizie. Passò qualche guaio con le autorità di un paio di quei paesi, per certe bimbe un po’ troppo giovani che s’era messo in casa. Finché un giorno, da amici comuni, appresi la notizia incredibile: s’era sposato. La cosa mi divenne un po’ più chiara quando seppi il resto. La moglie, Sèphora, era l’unica figlia di un riccastro del posto, un certo Ibrahim, che possedeva piantagioni di cacao lungo il corso del Comoé, alberghi e resort sulla costa e altro ancora. “Dovevo immaginarlo che avrebbe fatto quella fine,” dissi agli amici “Probabilmente lei sarà grassa e vecchia.” Ma non avevo capito, non del tutto.
Quando capitai ad Abidjan in occasione del solito convegno, in albergo trovai un invito. Non da parte sua, ma della moglie. E conobbi la notevole signora. Sèphora era effettivamente di una decina d’anni più vecchia di Tobia, ma non era né grassa né brutta. Era una donna alta, solenne. Vestiva con l’eleganza e lo sfarzo di una gran dama di lì: portava un sontuoso boubou islamico di bazin, color amaranto, con l’ampia gonna rigida, il corpetto attillato e l’elaborato turbante sagomato che le avvolgeva il capo. Sulle tempie, sfuggiva alla fasciatura di stoffa un ricciolo di capelli grigi.
Mi fu subito chiaro che era lei a comandare lì dentro. Prendemmo in veranda un cocktail rigorosamente analcolico e poi cenammo nella vasta sala che dava sul giardino. Cibi eccellenti e raffinati: crostacei e pesce freschissimo, riso, agnello, frutta. Sèphora dirigeva quel piccolo ricevimento a colpi di sguardi, senza pronunciare neanche una parola. Alle sue occhiate, manipoli di giovani donne e ragazzine pressoché adolescenti accorrevano a servire trafelate. Quando ci lasciò soli, dopo cena – per non più di dieci minuti, in veranda a fumare un sigaro – compiansi il mio amico. “Ti sei infilato in un guaio,” gli dissi.
“Credi?” rispose lui. “Sèphora non può avere figli… però desidera una famiglia numerosa. Io ho sempre cercato di risolvere le cose attraverso le donne…”
Seppi poi che tutte quelle giovinette che servivano a tavola erano sue. Seconde, terze o quarte mogli, o semplici amanti e concubine. Tutte lì con l’assenso di Sèphora, naturalmente. Anzi, spesso scelte da lei. Parecchie reclutate tra i ranghi delle sue nipoti o cugine più giovani. Nelle grandes familles africane è comunemente praticata la poligamia. Ma la prima sposa mantiene una posizione di preminenza e di comando su tutte le successive. Si crea così, in seno alla famille, una comunità femminile entro la quale l’uomo non conta molto. Nel solco di questa tradizione, Sèphora aveva elaborato una sua variante, un suo personale modello di grande famille.
Era una donna di spessore, quel che lì chiamano una sage femme: conosceva la medicina tradizionale, preparava pozioni e rimedi a base d’erbe e radici, assisteva ai parti, aveva fatto da levatrice a tutte le sue co-épouses più giovani, interpretava cerimonie tribali e utilizzava gris-gris rituali di magia bianca e nera. Ma era anche una signora evoluta e raffinata: grazie ai soldi del padre aveva potuto studiare in buone scuole e in gioventù aveva viaggiato all’estero, in Francia e in Europa.
A differenza delle courts di Yamoussoukro o Port Harcourt, per la lussuosa court di Abidjan scorrazzava un numero imprecisato di bambini perlopiù meticci (cafè au lait, come dicono lì) che Tobia aveva avuto e continuava ad avere da tutte quelle donne. Ma era Sèphora, l’unica da cui non ne aveva avuti, che regnava su quella variegata tribù come un’autentica matriarca africana. Esercitava un controllo assoluto sulla vita erotica di suo marito.
Tornai diverse volte a trovare Tobia. Quando il numero di bambini crebbe oltre un certo limite, dall’elegante villa di Cocodi si trasferirono a Grand-Bassam, la vecchia capitale coloniale, dove il suocero possedeva vasti appezzamenti.
Prima che un Alzheimer precoce gli annacquasse il cervello, una volta mi disse: “L’Africa è l’unico posto al mondo dove avrei potuto farlo. E anche Sèphora. Siamo entrambi dei primitivi.”
Vederlo, ora, rimbambito e felice nelle mani delle sue donne, mi mette un po’ d’ansia. Ma forse ho torto. Forse ha vissuto meglio di me.
Leopoldo Carlesimo è nato a Roma nel 1959. Per molti anni ha lavorato all’estero, nei cantieri di costruzione di dighe, perlopiù in Africa. Ha pubblicato le raccolte di racconti Baobab, sette racconti africani (Gaffi, 2006) e La diga di Kariba (Il seme bianco, 2017); sotto lo pseudonimo di Leo Finzi ha pubblicato il romanzo L’Alhaji, una storia nigeriana (Gaffi, 2011). Suoi racconti sono apparsi sulle riviste Nuovi Argomenti, Achab e sul webmagazine Succedeoggi.
Helo (Elio Di Girolamo), ciociaro di Vallecorsa, da vent’anni vive e lavora a Roma coltiva la sua passione per la fotografia. Frequenta studi fotografici, corsi e seminari e partecipa a diverse mostre collettive (https://www.exibart.com/artista-curatore-critico-arte/elio-di-girolamo/). Da ultima la partecipazione al Mostro #14, evento e mostra fotografica della galleria TAG di Roma.Nonostante la sua vita sia caratterizzata giornalmente da una pioggia di bit, ama la fotografia analogica e il bianconero come sua massima espressione. Tempo fa, alla domanda “Ce la farà mai a convertirsi al digitale?” la risposta sarebbe stata sicuramente no. Oggi, gli ultimi lavori prodotti convergono in questa direzione.