Periscopio (globale)
La Parola secondo Louise Glück
Qualche considerazione in margine a Louise Glück e alla sua poesia dopo il conferimento del Premio Nobel. Nei suoi versi c'è il senso ultimo delle parole che, nella loro semplicità, esprimono concetti e cose molto più complesse di loro
Nel conferimento del premio Nobel per la letteratura alla poetessa newyorchese Louise Glück ci sono numerosi motivi di soddisfazione, anche a voler prescindere dal valore intrinseco dei suoi versi. In primo luogo, il fatto che i riflettori vengano nuovamente puntati sulla poesia, dopo la doppia premiazione di narratori – Olga Tocarczuk e Peter Handke – avvenuta l’anno scorso, e che la consacrazione quindi sfugga, com’è giusto, alle logiche editoriali, premiando autori ad esse del tutto alieni, che di sicuro non hanno sfornato e non sforneranno mai un best-seller. Il secondo motivo di soddisfazione sta nel fatto che possiamo sentire la Glück come “una di noi”, nel senso che anche a lei è capitato ciò che avviene a quasi tutti coloro che scrivono, ossia vedere i propri manoscritti respinti da un numero impressionante di editori – nel suo caso, a quanto pare, ben quattordici case editrici rifiutano il primo, dal titolo Firstborn, e passeranno poi sette anni prima che un altro editore deciderà di accollarsi le spese della seconda raccolta, The House on Marshland. Il terzo motivo, meno aneddotico – e su questo vedrò di soffermarmi nelle prossime righe – riguarda invece la qualità della sua poesia e di quell’intreccio fra temi e trattamento degli stessi che in generale definiamo come poetica. Una poetica che nel caso della Glück si è modificata e sviluppata nel corso degli anni ma che mantiene una sua integrità lineare.
Come ormai tutti sanno, Louise Glück è nata a New York City nel 1943 ed è cresciuta a Long Island, frequentando – senza mai terminare gli studi – il Sarah Lawrence College e la Columbia University. Nota al pubblico e agli addetti ai lavori almeno dal 1993, quando ottenne il Premio Pulitzer per il suo libro più conosciuto, The Wild Iris (L’iris selvatico), già borsista delle Fondazioni Guggenheim e Rockefeller, proclamata negli Stati Uniti poet laureate nel 2003-2004, insegna poesia all’Università di Yale. Particolarmente importante per la sua carriera poetica negli Stati Uniti l’uscita nel 2012, presso Farrar, Strauss & Giroux, di un tomo di ben 634 pagine che contiene cinquant’anni di poesie, intitolato semplicemente Poems: 1962-2012, con cui ha vinto il Los Angeles Times Book Prize, mentre con la successiva raccolta Faithful and Virtuous Night (Notte fedele e virtuosa), del 2014, otterrà il National Book Award. In italiano, oltre all’Iris selvatico già citato, uscito per i tipi di Giano nel 2003, Massimo Bacigalupo ha assai ben curato nel 2019 per la napoletana Libreria Dante & Descartes anche Averno (2006). Tutto il resto deve essere ancora tradotto, e magari adesso Einaudi, Mondadori, Feltrinelli e gli altri grandi editori si accorgeranno della lacuna. Di libri da pubblicare nella nostra lingua ce n’è un’altra decina, oltre beninteso alla raccolta quasi integrale del cinquantenario, ma il problema non riguarda tanto la Glück, quanto la poesia mondiale nel suo insieme, di cui in Italia non arrivano che briciole.
Le raccolte poetiche della Glück sono caratterizzate da una serie di elementi non banali, che corrispondono a scelte espressive del tutto consapevoli. Il primo di questi elementi è l’opzione a favore del verso libero, che si farà con il passare del tempo più complesso nella sua struttura (inizialmente le frasi, soprattutto quelle iniziali, erano brevissime, composte di appena sette od otto parole). Il secondo elemento è la scelta di un linguaggio quanto più possibile semplice e prosaico, laconico, legato alle cose della vita quotidiana, chiamate con il loro nome e mai idealizzate o rivestite di superfetazioni semantiche – non troppo diversamente dal modo di procedere di un altro famoso poeta statunitense contemporaneo, Charles Simić, di cui pure si era parlato come uno dei possibili candidati al premio. Il terzo elemento è l’andamento colloquiale che di tutto ciò è la diretta conseguenza. Leggendo le poesie della Glück si ha sempre l’impressione di essere in dialogo diretto con la poetessa, in un rapporto “a tu per tu” che crea empatia e partecipazione nel lettore. Cito un solo esempio: la prima strofa della poesia Afterword comincia con le parole (che traduco qui di seguito) “Reading what I have just written, I now believe / I stopped precipitously, so that my story seems to have been / slightly distorted, ending, as it did, not abruptly / but in a kind of artificial mist of the sort / sprayed onto stages to allow for difficult set changes.” [“Leggendo quanto ho appena scritto, adesso credo / d’essermi fermata precipitosamente, e la mia storia / sembra ora lievemente distorta, finendo non di colpo, come invece è stato, / ma in una specie di nebbia artificiale tipo quella / che si usa a teatro per un complicato cambio di scena.”] Qui la Glück non descrive solo, senza trucchi od orpelli, il momento della scrittura, ma accenna anche al divario fra realtà delle cose e verità (o veridicità) della scrittura, senza farsi illusioni sulle nostre capacità di rievocazione, ma al tempo stesso con l’orgoglio di aver ricreato con semplicità (e sia pure attraverso una “nebbia artificiale”) un momento concreto della vita vissuta.
Legata a quest’andamento colloquiale è un’altra scelta fondamentale, quella di situarsi nell’alveo della cosiddetta poesia confessionale, una corrente poetica novecentesca che in particolare negli Stati Uniti ha avuto una notevole rilevanza e a cui hanno aderito, in forme e modi diversi, molti dei maggiori poeti statunitensi, da Sylvia Plath ad Anne Sexton a Robert Lowell, il cui esempio e a volte modello si salda con la derivazione forse più significativa per la Glück, che è quella che la lega fortemente (pur senza dimenticare Keats e Whitman) alla poesia di Emily Dickinson. Da tutti questi poeti Glück deriva senz’altro immagini e atmosfere, riuscendo però a imporre un tocco personale nonché, nel suo laconismo, una cifra più ironica e leggera.
C’è una forte preoccupazione per la semplicità, e ancora una volta per la dimensione colloquiale, anche alla base della decisione di far prevalere la sintassi del discorso ordinario su quella, sovente oscura e irregolare, del linguaggio poetico. Così come non cerca immagini ad effetto, Louise Glück si attiene alle regole sintattiche in uso per i normali scambi linguistici, senza pretendere che esse non si applichino alla poesia. Le sue frasi sono di senso compiuto, contengono quasi sempre un soggetto ben delineato (non necessariamente un io poetico), un predicato, dei complementi, e si chiudono con un punto. Sembra una banalità, ma è in testarda controtendenza rispetto a tanti linguaggi poetici contemporanei che, apprese le lezioni del futurismo, del surrealismo e del dadaismo, non di rado si muovono nella direzione opposta, quella di una frammentazione del dettato poetico.
Non si deve ritenere però che la colloquialità e la semplicità della Glück conducano necessariamente a un impoverimento o addirittura a un annullamento della percezione poetica. Paradossalmente avviene il contrario. Si veda a mo’ d’esempio la poesia A Summer Garden, la cui seconda sezione comincia con il verso “When I had recovered somewhat from these events” [Quando in qualche modo mi fui ripresa da questi eventi”]. Cos’è successo di trascendentale nella prima sezione, da richiedere un simile sforzo all’io poetico? Apparentemente nulla. Il soggetto trova una fotografia impolverata della madre, la spolvera, le ombre della sera avanzano, si passa dall’estate all’autunno, le balena in mente una parola che poi non ricorda: “Was it blindness or darkness, peril, confusion” [“Era cecità od oscurità, pericolo, confusione”]. Ma ecco che nella seconda sezione, dopo essersi appunto ripresa, ripone la foto spolverata della madre, che immaginiamo deceduta da tempo, fra le pagine di un vecchio volume (Morte a Venezia) su cui qualcuno, forse il soggetto stesso, aveva sottolineato in passato due parole unendole con una freccia, le parole “sterilità” e “oblio”. La foto testé ritrovata, potremmo interpretare, non riporta in vita la persona raffigurata, ma la condanna ancora una volta all’oblio nel luogo dove sarà riposta e ancora una volta dimenticata, perché il ritrovamento in sé è sterile se non incide in qualche modo sulla nostra vita. Ecco un esempio di una poesia quasi cifrata, che resta appunto nella mente del lettore e per essere interpretata lo costringe a un’attività di scavo e di rilettura.
Un’altra capacità davvero rara della Glück è di lavorare sempre nella prospettiva non della singola poesia, ma del libro completo, con dei rimandi interni, da un componimento all’altro, perfettamente sensati e ben calcolati. L’iris selvatico, una sequenza lirico-narrativa serrata e coerente, ne è forse l’esempio più calzante.
Nei versi della Glück non manca la dimensione autobiografica, né la scoperta presenza dell’io: ma questo avviene in modo originale, mediante una reinterpretazione che passa spesso attraverso il mito greco e la psicoanalisi: non dimentichiamo che, avendo sofferto di anoressia in gioventù – tema trattato raramente ma con pregnanza –, la Glück si sottopone a sette lunghi anni di terapia psicoanalitica, che lascia tracce evidenti, con frequenti riferimenti a Freud, nei suoi versi. Fra il personaggio del se stesso sofferente e la mente che dall’esterno freddamente lo scruta e ne oggettiva le percezioni sulla pagina bianca (se si vuole, la mente creatrice della poetessa) s’intravvede tuttavia una specie di membrana, di netta separazione, quasi che la Glück volesse accogliere le suggestioni autobiografiche, che fin dalle prime raccolte certo non mancano, solo a condizione di poterle osservare dall’esterno, con il distacco che consente il tempo e con quello che in una poesia dell’Iris selvatico definisce un cuore freddo (“cold heart”). Stessa funzione sembra svolgere la rielaborazione e attualizzazione di mitologie greche e romane, in cui il patimento privato cerca in qualche modo la propria fonte in una sofferenza collettiva già attestata dal mito.
Se nelle prime raccolte Louise Glück si sofferma in particolare sulla solitudine derivante da fallimenti personali – amori non ricambiati, famiglie disastrate, divorzi, il rapporto non sempre facile con la natura, le nostre relazioni, necessarie ma sovente insoddisfacenti, con gli altri, l’impatto dell’invecchiamento, l’incontro con la morte –, questi stessi temi si potenziano nei volumi successivi, a volte con una vaghezza che sembra non corrispondere più alla già menzionata semplicità nel linguaggio utilizzato e che quindi funziona come una specie di segnale d’allarme, coinvolgendo e spingendo il lettore (o, direi, quasi costringendolo) a una rilettura più attenta. C’è nell’opera della Glück anche, in qualche caso, il ricorso alla crudeltà; la dissezione dei sentimenti non conosce limiti perché la verità non li ammette. Per poter essere rimosso, tutto ciò che di mostruoso cela l’animo umano deve essere anzi esplicitato. Ora, l’aneddotica familiare vuole che sia stato il padre della Glück a inventare il taglierino noto in America come X-Acto; e non è difficile arguire che di un simile strumento la figlia abbia saputo poi servirsi in poesia, al momento opportuno e con estrema perizia.
Il rapporto con Dio, risolto non in modo confessionale (quale che possa essere la confessione), ma da una prospettiva che si presume gnostica, è presente specialmente nella prima fase e culmina in quello che resta il suo libro più famoso, L’iris selvatico, dove la trascendenza è data per acquisita ma è anche messa più volte in discussione, almeno fino al momento in cui, in uno dei componimenti ambientati nel giardino, a prendere la parola sarà Dio stesso, il Padre irraggiungibile (“unreachable father”), un Dio che non ama più gli uomini, ma tutt’al più li compatisce, pur senza capire appieno il terrore che attraversano. Un Dio che si rivolge all’umanità per redarguirla severamente, ma nei confronti del quale, come nella poesia Witchgrass (Zizzania), dove si avvertono echi evidenti della protesta ebraica contro il Dio cieco dell’olocausto, anche l’uomo ha qualche motivo di esprimere delusione e persino un cupo risentimento. Espediente, questo di un io poetico non necessariamente umano, che nella Glück è peraltro abbastanza comune, visto che proprio in questa raccolta, come anche altrove, oltre che a un Dio tutto sommato familiare e a portata di mano dà la parola a fiori, alberi, venti, tramonti, vermi, pipistrelli e altre creature.
Oltre che delle raccolte poetiche, Glück è autrice anche di un libretto di sedici brevi saggi uscito nel 1994 e intitolato Proofs and Theories: Essays on Poetry, in gran parte dedicato al concetto di impoverimento e di sfrondamento che sarebbe alla base della sua pratica poetica. Il libro si apre con una frase lapidaria: “The fundamental experience of the writer is helplessness.” [“L’esperienza fondamentale dello scrittore è l’impotenza.”] Ed è in effetti quello che chiunque scriva avverte prima o poi sulla propria pelle, tanto al momento di produrre i propri testi quanto al momento (ancora più critico, se possibile) di rileggerli, e quindi di rileggersi.
Chiudo con un’osservazione che potrà sembrare provocatoria: pur essendo consapevole di tutte le differenze formali e contenutistiche fra i due, mi sembra che per l’insieme della sua poetica la Glück non sia poi tanto lontana da un altro recente premiato, quel Bob Dylan su cui in tanti si sono scatenati ritenendolo avulso dal mondo della letteratura. Sarebbe interessante lumeggiare se non vi siano invece analogie evidenti nell’uso dell’arma bianca con cui operano le loro dissezioni, più personali nel caso della Glück, decisamente collettive in quello di Dylan, e se quelle della Glück non potrebbero essere lette come canzoni senza musica, il cui ritornello, magari da ospite a volte indesiderato, ci rimane comunque a lungo nelle orecchie.