Visto al Teatro Libero di Palermo
La favola della Storia
Beno Mazzone ha tradotto per la scena un racconto (molto teatrale) del francese Jean-Claude Grumberg. Una favola allegorica sull'Olocausto dietro la quale compare lo spettro del razzismo di sempre. Quello che condanna chiunque sia diverso da noi
C’è un tetro che resiste anche senza prebende, senza stampelle pubbliche. Sono stato al Teatro Libero di Palermo, per esempio, dove con fatica e tenacia Luca e Beno Mazzone hanno riaperto i battenti allestendo una stagione autunnale ragionata e intelligente; fatta di attenzione alla drammaturgia contemporanea (come sempre, in questo storico centro di produzione) e di apertura di credito alle giovani leve, della zona e no.
Probabilmente, lo spettacolo ora in scena – La merce più preziosa, di Jean-Claude Grumberg, con traduzione e regìa di Beno Mazzone – rappresenta al meglio il senso della sfida ormai più che quarantennale del Teatro Libero di Palermo.
La merce più preziosa è una favola per adulti, un racconto in prosa di forte impatto teatrale (l’autore è uno dei più apprezzati drammaturghi francesi, essendo nato a Parigi nel 1939) che Beno Mazzone ha smontato e rimontato per la scena affidandolo a tre attori che dànno corpo e voce a tutti i personaggi.
Il testo narra una storia vera e allegorica al tempo stesso. Siamo nel pieno della guerra nazista, in un bosco attraversato dalla ferrovia che porta i prigionieri di mezza Europa nei lager di Hitler. Da un lato ci sono un taglialegna e sua moglie: lei vorrebbe un figlio ma non può permetterselo per via della miseria in cui è costretta. Dall’altro lato c’è un aspirante medico ebreo, un giovane forte e vitale che, con la moglie e due figli gemelli appena nati, viene spedito in lager su un convoglio piombato. La taglialegna considera il treno che attraversa il “suo” bosco una sorta di divinità che le lancia segnali incomprensibili: sono i biglietti che le vittime del nazismo lanciano al mondo dai vagoni sbarrati. Ma la donna non sa leggere e serba quei fogli come messaggi d’incoraggiamento in attesa di doni futuri.
E, in effetti, il “treno merci”, così lo chiama la donna, un giorno nevoso le regala qualcosa che la riscatta dal dolore e dalla miseria: una bambina appena nata, ciò che lei sognava più di ogni altra cosa. Ma noi sappiamo, grazie al racconto di Grumberg, che la neonata non è un dono divino, bensì la figlia dell’aspirante medico il quale, disperato, l’ha gettata dal treno della morte sperando in qualche modo di salvare almeno lei dei suoi gemelli. Così è, in effetti, giacché la donna raccoglie la bimba e la tiene per sé come un dono di dio (il dio del treno merci, onde la bambina viene chiamata semplicemente merce) e la difende dalla diffidenza dei suoi vicini ma anche dalle rimostranze del marito, ben più smaliziato di lei, che sa come quella sia in realtà figlia dei “senzacuore” (gli ebrei) con i quali non vuole condividere alcunché. Da questo momento, quella della donna e di sua figlia sarà una battaglia continua e terribile per la sopravvivenza, fino all’epilogo finale che, come tutte le favole, non può che essere lieto (Grumberg rovescia il mito di Edipo e trasforma il “figlio abbandonato” da inconsapevole carnefice di Laio e Giocasta nel loro inconsapevole salvatore).
Trattandosi di una favola allegorica, certi segnali hanno gran peso. Per fare solo un esempio e non svelare tutte le sorprese dello spettacolo, colpisce l’insistenza con la quale l’autore chiama la neonata con il nome di “merce”. È facile scorgere in questo artificio la voglia di allargare il campo dalla spaventosa catastrofe umana della Shoah a tutte le repliche che ne sono seguite. Fino alla “merce” che certi nostri politici vorrebbero rimandare indietro sui nostri mari. Insomma, qui si parla dell’Olocausto e, per suo tramite, di tutte quelle situazioni nelle quali gli esseri umani non vengono più considerati tali ma semplici oggetti. Scomodi o sconvenienti, a seconda dei casi. Privi, comunque, del diritto di reclamare umanità o – come suggerisce Grumberg – amore. E Beno Mazzone, con mano lieve, sottolinea questa bruciante attualità del racconto che ha messo in scena: il diverso è odiato sempre. Per via dell’ignoranza generale, oltre che in virtù di una strategia politica scellerata.
Ma a colpire lo spettatore è la levità con la quale i tre attori, Giada Costa, Vincenzo Costanzo e Giuseppe Vignieri, ricostruiscono la vicenda e i personaggi; vuoi con le loro voci, vuoi con i loro gesti, vuoi con piccole variazioni di costume (una gran varietà di copricapo, innanzi tutto): dietro c’è un lavoro di drammaturgia raffinato che ha saputo teatralizzare al meglio questo testo in prosa. Perché poi, alle volte, basta poco per costruire una regìa azzeccata, come questa di Beno Mazzone. Se dovessi spiegare in che cosa consiste la magia del teatro, in assoluto, non potrei che citare una scena di questo spettacolo. La l’attrice che incarna la donna che partorisce i due gemelli, identifica i neonati con due lunghe sciarpe di cotone bianco che accudisce, appunto, come altrettanti neonati. E quando l’attore che interpreta il padre dei gemelli decide di buttarne uno dal treno, non fa altro che avvolgere la stoffa bianca con una pezza dorata per lasciarla andare a terra. Ebbene, lo spavento che in quel momento patisce lo spettatore, che quel niente di stoffa crede un vero neonato, è precisamente il teatro. Ossia una convenzione che restituisce una verità emotiva attraverso la finzione scenica. C’è tempo fino a domenica per vedere questo piccolo gioiello: considerato che i teatri – in tempi di coronavirus – si sono dimostrati i luoghi più sicuri dove vivere insieme (una ricerca ha dimostrato come un solo contagio si sia verificato tra oltre trecentomila spettatori che hanno visto spettacoli teatrali dal 15 giugno a ieri), fossi in voi non perderei l’occasione.