Lorena Piras
Incontro con Michele Navarra

Gordiani e la colpa

Parla l'inventore di Alessandro Gordiani: «Ogni essere umano, giudici e avvocati compresi, ha una propria personalissima visione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è. Questa visione naturalmente non potrà mai essere oggettiva»

Una suggestione osservando un murale, a Fonni. Uno di quei dipinti che segnano nella pietra volti che dalla pietra sembrano scavati, solidi in un tempo immobile: il nero del lutto avvolge una donna accanto a un bambino e di lato, come racchiusi in una foto, una famiglia in costume tradizionale. L’uomo è seduto su un muretto con tre bambini, la donna in piedi con il figlio più piccolo. Il ricordo di un lontano caso di cronaca nella cui sentenza si accennava al codice barbaricino.

Tanto è bastato, tra le pieghe dei vicoli del centro sulle pendici del Gennargentu dove spesso ritorna, a far nascere in Michele Navarra, avvocato penalista romano, l’urgenza di trasformare in parole un’idea che ha continuato a crescere sino a diventare il suo nuovo libro, Solo Dio è innocente (Fazi editore, 16 euro).

Un legal che parte da una lite verbale in un bar di paese tra Davide Rutzu e Mario Serra, Mario il bastardo, Mario l’assassino che, per un muretto a secco, dieci anni prima, gli aveva ucciso lo zio, finendo assolto. Due famiglie, i Rutzu e i Serra, legate e segnate da morti che si vendicano con altri morti, rancori mal sopiti, tregue precarie interrotte da scariche di pallettoni.

Le parole gettate quella sera al centro del paese sono ancora nell’aria quando il fratello quindicenne di Davide, Gregorio, viene brutalmente ucciso. Unico testimone, Davide. Unico indiziato, Serra.

L’avvocato Alessandro Gordiani è in tribunale a Roma con un suo collega, manca poco alle ferie e sta sbrigando le ultime pratiche quando gli squilla il cellulare. Numero anonimo. Dall’altra parte, un interlocutore con un forte accento sardo. È il cugino di Mario Serra, Carlo. Vuole che Gordiani segua quella che ancora non è una causa ma sta per diventarlo. Perché, dice, è la persona giusta

Sei padre letterario di Alessandro Gordiani: penalista romano cinquantenne, una Vespa per spostarsi, sposato, due figlie adolescenti. Un uomo normale, con i suoi dubbi e le sue paure, più morali che fisiche, e un pressante senso di inadeguatezza. Come è nato, quanta strada avete fatto insieme e che percorso seguirà Gordiani, ora alla sua sesta avventura?

Michele Navarra

È una gran bella domanda, che ogni volta mi mette un po’ in difficoltà. Alessandro Gordiani è nato oltre dieci anni fa per aiutarmi a superare il malessere che provavo nei confronti della professione e per aiutarmi a dire alcune cose che altrimenti avrei dovuto tacere. In pratica è cresciuto con me. Insieme ad Alessandro e alla sua Vespa ho percorso tantissima strada e in qualche caso è stato necessario superare ostacoli difficili lungo il percorso. Credo che, almeno per un altro po’ di tempo, cercheremo di proseguire insieme quest’avventura, a tratti entusiasmante. Come puoi immaginare, ho molti aspetti in comune con il protagonista dei miei romanzi (ho appena cominciato a scrivere il settimo…), gli stessi dubbi, le stesse paure, le stesse incertezze, lo stesso senso di inadeguatezza, che ha portato entrambi a dare sempre il massimo, proprio per la paura di deludere le aspettative degli altri, di chi affida la propria vita nelle nostre mani. Con il procedere della scrittura, Alessandro Gordiani si è un po’ affrancato, diventando una sorta di me… aspirazionale, in altre parole sono io che vorrei somigliare a lui…

Ambienti il tuo romanzo a Fonni, citi il codice barbaricino: giustizia di tribunale che tarda, giustizia di fucile che interviene. Sangue che chiama sangue, giustizia di Stato a cui cammina accanto la vendetta. La natura dei luoghi si specchia nella natura umana guidando la costruzione della narrazione. Quanto è stretto il legame tra un fatto di cronaca e l’ambiente?

Il codice barbaricino nella sua accezione tradizionale, secondo i canoni elaborati tanti anni fa da Antonio Pigliaru, oggi non esiste più. Tuttavia, raccontare una storia che avesse a che fare con gli strascichi di questa sottocultura ormai desueta aveva un fascino quasi irresistibile, soprattutto in considerazione di una certa cronaca giudiziaria che, come ben sai, anche molto di recente ha purtroppo offerto molti spunti in questa direzione. Fatti ambigui, che hanno fatto sì che qualcuno sulla stampa ancora oggi usasse il termine “faida”. Un omicidio resta pur sempre un omicidio, ma sono le sue motivazioni a fare la differenza. In tal senso, possiamo dire che il legame tra un fatto di cronaca e il suo ambiente di riferimento può essere davvero molto stringente, addirittura indissolubile in certi casi. Ad esempio, sarebbe difficile ambientare Romanzo Criminale lontano da Roma, così come sarebbe impossibile ambientare Gomorra in un luogo diverso da Napoli.

Gordiani, oltre a interrogarsi sul proprio ruolo, riflette sulle responsabilità legate al ruolo dell’accusa, su quanto sia difficile prendere una decisione sul destino di un altro uomo. Per questo definisce Dario Sangiorgi, il Pubblico Ministero, un vero eroe. È davvero eroismo, o è rispondere al senso del dovere?

Credo entrambe le cose. Senz’altro, la componente relativa al senso del dovere e dello Stato è molto forte in Sangiorgi, come del resto in quasi tutti i pubblici ministeri “reali”. Quanto all’eroismo si tratta di una mia intima convinzione, fatta propria da Alessandro Gordiani. Personalmente, credo che per svolgere un certo ruolo sia necessario avere un enorme coraggio, soprattutto dal punto di vista etico e morale. Semplificando molto, potremmo dire che mentre l’avvocato deve limitarsi a difendere una persona, volendo senza preoccuparsi della sua eventuale colpevolezza, il pubblico ministero deve invece fare molto di più, deve accusarla, deve chiedere la condanna di un uomo, correndo il rischio – più o meno elevato (quasi mai questo rischio è nullo) – di far condannare un innocente. Se non è un atto di eroismo questo… Sangiorgi inoltre incarna l’idea del pubblico ministero “perfetto”, che si muove all’interno di un contesto di rispetto e lealtà, senza preclusioni o pregiudizi di sorta e che si pone con il giusto atteggiamento di “ascolto” verso le istanze dell’avvocato difensore e di riflesso verso quelle dell’imputato. Non rinuncia a fare il suo lavoro, non abdica al suo ruolo di magistrato inquirente (e quindi accusatore), ma lo porta avanti in un modo che il lettore tende a considerare corretto e condivisibile.

La scissione tra ciò che è accaduto e ciò che si può sapere è inafferrabile: verità processuale e verità fattuale non sempre coincidono, ma il nostro bisogno di controllo non ci fa arrendere a questa evidenza. Se lo chiede anche Gordiani, prima di accettare il caso che da Roma lo porterà in Sardegna: quando una sentenza, una causa, è “giusta”?

Direi che verità processuale e verità fattuale non coincidono quasi mai, è un’evidenza cui invece bisogna arrendersi. E, a mio avviso, è proprio questa resa, questa consapevolezza, a far sì che Alessandro Gordiani si ponga una serie di domande, cui è praticamente impossibile fornire una risposta esaustiva e soddisfacente. Una causa, una sentenza sono sempre “giuste”. E, allo stesso tempo, non lo sono mai. Ogni essere umano, giudici e avvocati compresi, ha una propria personalissima visione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è. Questa visione naturalmente non potrà mai essere oggettiva, ma dovrà sempre passare attraverso l’interpretazione (al contrario, necessariamente soggettiva) della legge e dei fatti umani che secondo la legge devono essere giudicati. E, come ho detto tante altre volte, i due concetti di “legge” e di “giustizia” non combaciano quasi mai, quindi applicare correttamente la prima non sempre e non necessariamente significherà far “trionfare” la seconda, perché la legge è (e sempre resterà) solo l’ombra della giustizia. Da questo punto di vista, è davvero rarissimo che una sentenza possa definirsi completamente “giusta”.

Un avvocato difende un uomo e non il reato, sarà poi il giudice a dichiararlo o meno colpevole. È un’altra delle domande che si pone Gordiani: esistono gli indifendibili?

Come ho già avuto modo di scrivere, per Alessandro Gordiani gli “indifendibili” esistono, non certo in linea di principio, perché in un ordinamento giudiziario civile a chiunque deve essere garantito il diritto di difesa, quanto a livello pratico, perché Gordiani è consapevole che in certi casi, per colpa dei suoi limiti caratteriali e dei suoi valori etici, la sua difesa potrebbe risultare inefficace e in questo caso è meglio fare un passo indietro. Del resto, è sempre la coscienza individuale a guidarci, con delle inevitabili ricadute a livello di efficacia processuale. Tendenzialmente, come ogni avvocato, Alessandro vorrebbe essere sicuro di difendere un innocente, di combattere una battaglia che sia in qualche modo “giusta”, pur con i limiti che questo aggettivo può avere in un processo. Anche se, difendendo un vero innocente, le responsabilità sono ancora maggiori.

Ne Il giudice e il suo boia Dürrenmatt si chiede se sia giusto o meno incolpare qualcuno per un crimine che non ha commesso, quando in realtà è responsabile di uno per il quale non è stato accusato. È un nodo che anche tu in qualche modo sfiori e sciogli con una pena molto particolare: la vergogna. Ti è mai capitato che un tuo assistito tacesse un particolare perché il senso di vergogna era più forte della paura del carcere?

In qualche rara circostanza mi è capitato e non soltanto in relazione a vicende che avevano a che fare con la sfera sessuale. Si può tacere per tanti motivi diversi, non ultimo per il desiderio di non “sporcare” la propria immagine di persona di un certo tipo agli occhi della propria famiglia o, più in generale, del resto della collettività. Nel mio romanzo, la reticenza del protagonista, Mario Serra, è abbastanza comprensibile, visto l’ambiente da cui proviene e la sua cultura di riferimento. In Solo Dio è innocente, alla fin fine la… sanzione viene irrogata per caso e non da un giudice e, del resto, lo stesso Dürrenmatt, da te giustamente citato, cercava proprio di dimostrare l’assoluta casualità nel dipanarsi delle vicende umane. In generale, però, ritengo non sia mai giusto punire qualcuno per un reato che non ha commesso e, infatti, nel mio romanzo, per rimettere le cose a posto, ho utilizzato un espediente, facendo ricorso ad una sorta di pena di tipo psicologico, una specie di “squalifica sociale” insomma.

Fiction e letteratura giudiziaria influenzano il modo in cui guardiamo la cronaca nera, generando una sorta di cortocircuito. George Gerbner già negli anni Sessanta descriveva questo fenomeno parlando di teoria della coltivazione, secondo la quale il consumo di fiction porta le persone a confondere realtà e finzione. Sei d’accordo?

Sostanzialmente sì. Al di là delle critiche, più o meno condivisibili, mosse alla teoria di Gerbner, che analizzava gli effetti della sovraesposizione ai programmi televisivi, è indubbio che al giorno d’oggi vi siano troppe persone convinte che le indagini e i processi si svolgano nel modo in cui vengono descritti nelle fiction televisive e in alcuni romanzi. Peraltro, va rilevato che numerosi di questi prodotti provengono da paesi di cultura anglosassone, dove le differenze col nostro sistema giudiziario sono ancora più marcate, con un effetto negativo (nel senso da te indicato) ancora più dirompente. Aggiungici che anche la stampa e il mondo dell’informazione danno il loro contributo in questa sorta di “mistificazione della realtà”. Ad esempio, divulgando atti d’indagine ancora coperti dal segreto istruttorio, ingenerano nello spettatore o nel lettore l’erronea convinzione che questa sia la normalità. Quindi, tanto per essere più chiari, un avvocato che spieghi al proprio assistito che – nella realtà – non è possibile conoscere  nemmeno il contenuto di una querela (figuriamoci di altri atti) prima di ricevere l’avviso formale di conclusione delle indagini, dovrà necessariamente scontrarsi con lo scetticismo di chi ha davanti, che spesso resterà convinto (proprio per colpa del “messaggio” divulgato dalla televisione e, a volte, da certa letteratura giudiziaria) che le cose stiano in modo diverso e che quindi sia il professionista al quale si sono rivolti ad essere in errore o, peggio, ad essere incompetente e impreparato.

Con la vittoria del “buono” contro il “cattivo”, che nella realtà non sempre c’è, la lettura di un giallo giudiziario appaga il senso di sicurezza del lettore. Quanto c’è di reale delle aule giudiziarie di cui scrivi?

Credo tu abbia ragione: nella realtà non sempre il “buono” vince contro il “cattivo”, semmai l’opposto. Tuttavia, è vero che una conclusione positiva appaga la necessità di sicurezza del lettore o dello spettatore, regalandogli l’illusione (perché, purtroppo, alla fine di illusione si tratta) che sia possibile vivere in un mondo più “giusto”, dove chi non rispetta le regole ne paga (sempre) le conseguenze e dove l’ordine naturale delle cose alla fine viene (sempre) ristabilito. Nei miei romanzi ho sempre cercato di attenermi fedelmente, per quanto possibile, a ciò che avviene davvero all’interno delle aule giudiziarie. Avendo poi il grande privilegio di poter scegliere come far finire le mie storie (io per primo sono lettore e “fruitore” di me stesso e quindi sono sostanzialmente alla ricerca delle stesse rassicurazioni dei miei lettori), scelgo quasi sempre, pur con tante sfumature diverse e in alcuni casi “amare”, di far sì che siano i “buoni” – o i meno “cattivi”, se preferisci – ad avere la meglio. Il più delle volte, però, nelle mie storie non ci sono veri vincitori, ma questo è un altro discorso…

Un capitolo si intitola Vincitori e vinti. Al termine di un processo, è realmente così netta la differenza tra vincitori e vinti?

Purtroppo no. Spesso anzi mi sono accorto che al termine di un processo non ci sono mai veri vincitori. Sarebbe bello se vi fossero, sarebbe bello se fosse sempre possibile dividere con nettezza i vincitori dagli sconfitti. Ma non è così. Quando muore una persona che non doveva morire, qualunque sia la sentenza finale, alla fine non vince nessuno.

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