A proposito de “Le vite che nessuno vede”
Le donne dell’Amapà
Ci sono le levatrici dell'Amazzonia che pregano un Dio femmina, il ragazzo saggio del Rio Grande che cavalca una scopa e la vittima delle multinazionali: Eliane Brum racconta il Brasile segreto. Quello che Bolsonaro sta distruggendo
Il Brasile è soltanto un nome. Quello dato a varie diverse regioni, ciascuna delle quali ha le proprie credenze, le proprie magie, le proprie condizioni di vita, i propri poveri, i propri matti. Un’accozzaglia di differenze, attualmente governate – si fa per dire – dal presidente Bolsonaro che col graduale abbattimento degli alberi dell’Amazzonia ruba ossigeno al mondo intero. Ecco perché la giornalista Eliane Brum, vincitrice di numerosi premi, nel libro intitolato Le vite che nessuno vede, Sellerio,242 pg., 16 euro, parla di “Brasili”.
Una sequela di storie che fanno rabbrividire a tal punto da parere racconti dell’immaginazione. Un testo che, per come è ben fatto, ci sputa addosso emozioni forti e tristi. Un testo che a ogni pagina solleva stupori. Più densi della polvere delle immense pianure, più densi dell’umidità che si respira sotto gli alberi giganteschi che aspettano i macchinari killer, guidati dai “grileiros”, «avidi di mogano e dell’oro della terra del Riozinho». Scrive la Brum: «Ho impiegato quattro giorni, navigando dodici ore al giorno e dormendo nella foresta per arrivare alla foce del Riozinho, là dove gli indigeni temono di perdere tutto quel che conoscono, compresa la loro vita». Ben altra cosa rispetto al municipio di San Paolo dove ha visto ammassarsi uomini e donne in procinto di sposarsi, peccato che nessuno di loro avesse la carta d’identità.
Gli indigeni che vivono sotto questa coltre scura seguitano, secolo dopo secolo, a condurre la vita degli antenati. Le levatrici della foresta, per esempio. Percorrono decine e decine di chilometri, su canoe o a piedi, per far nascere i bambini, nel ventre umido dell’Amazzonia, all’estremo nord del Brasile, «un pezzo del mondo tagliato fuori dai notiziari, una regione che si chiama Amapà». Molte di queste donne ignorano l’alfabeto, ma «leggono la foresta, l’acqua e il cielo». La nascita è un fatto naturale. Il parto avviene o in una capanna o a terra, lontano dagli uomini, i quali possono guardare e toccare il figlio solo dopo il primo gemito. Si partorisce qui e non in ospedale perché, dice una di loro, i medici col camice bianco sanno solo tagliare e spesso sono portatori di infezioni o di morte.
La più anziana di queste “cabocla” (termine con cui sono chiamati i contadini del Nordest brasiliano), si chiama Dorica e ha 96 anni. Ha fatto nascere centinaia di bimbi dell’Amapà. Ha le mani piccole, quasi da bambina. Usa espressioni poetiche per spiegare la sua missione: «Una levatrice non sceglie. È chiamata nelle ore della morte della notte per popolare il mondo». Si muove come uno spettro, naviga sui fiumi dell’Oiapoque, illuminata solo da una lampada. Di solito è accompagnata dalla sorella Alexandrina, 66 anni, che dice: «Donna e foresta sono la stessa cosa e tutto si trova nel corpo di una donna. Forza e coraggio, vita e piacere». Navigano in acque popolate da caimani, «ma non hanno paura perché i caimani mangiano solo cani e sandali». La levatrice abbraccia con le gambe il corpo della partoriente, e aspetta soltanto. Poi preme sulla pancia della madre per mettere dritto il bambino. Sparge olio di tapiro, di razza o di opossum, recita preghiere e incantesimi per consumare ciò che è per tutti “il mistero”. Rompe la borsa delle acque con le unghie e taglia il cordone ombelicale con una freccia o con i denti. «Prendere il bambino vuol dire aspettare il tempo della nascita. I dottori, in città non lo sanno e, siccome non lo sanno, tagliano la donna». La saggezza antica vuole che si aspiri con la bocca il muco nasale del neonato finché non lo si sente piangere. Alla fine Dorica affida la donna al padre, al quale dice: «Quel che potevo fare l’ho fatto. Adesso sei tu che ti devi occupare della famiglia». L’uomo ringrazia e chiede di poterla compensare in qualche maniera, ma Dorica risponde: «È Dio che paga». E tutto questo, scrive la giornalista, va avanti così da più di cinquecento anni.
La donna rimane a casa per circa quaranta giorni. Prima di respirare l’aria della foresta viene benedetta con acqua e sale per scacciare gli spiriti maligni. La pelle delle levatrici non è sempre uguale: ci sono le nere, ci sono le bianche nonché le mulatte. Per loro, il Dio cui si rivolgono è femmina. Oggi la maggior parte delle levatrici praticano la religione cattolica o il movimento pentecostale. Invocano un Dio cristiano, lo Spirito Santo o gli “Orixà”, che sono le deità della Chiesa di Roma. Scrive Eliane Brum che le levatrici vanno a piedi o in canoa per “consumare il miracolo”, sanno che il parto è resistenza e sovversione, che «in ogni donna c’è qualcosa della dea. Molte sono state bruciate dall’Inquisizione». Poco importa se qualche levatrice disegna con un dito una croce sulla vagina. Ma loro non sanno nulla dell’Inquisizione, non hanno letto la storia nei libri. Tuttavia, annota la giornalista, «in qualche modo conservano nelle ossa il calore dei roghi». È curioso notare che molti indigeni hanno una parlata fortemente influenzata dalla lingua francese, e questo si spiega nelle terre poco lontane dalla Guyana francese.
La settantenne Jovelina Costa dos Santos è la più nota a Ponta Grossa do Piriri, un villaggio sparso tra poche decine di case e qualche campo sperduto, a cento chilometri da Macapà. È una donna sempre sorridente: «Rido perché ho deciso di non essere triste… i figli sono la ricchezza, sorella mia (dice rivolta alla freelance brasiliana, ndr), la cosa più bella da vedere. In questo abisso di morte, o riempiamo il mondo di figli oppure scompariamo… E poi è così bello partorire». E aggiunge ammiccando: «Farli mi piace ancora di più».
E ora parliamo di matti. Ce ne sono in tutto il mondo, quindi anche in Brasile. Eliane Brum ha scovato un ragazzo, Vanderlei Ferreira, che quando aveva 15 anni ha fatto la sua comparsa davanti alla fiera del bestiame. Proveniva da Uruguaiana, alla frontiera del Brasile con l’Argentina. Aveva viaggiato un po’ a piedi e un po’ spremuto in mezzo al bestiame sul cassone di qualche camion. Ovviamente puzzava. Si presentò alla grande festa del Rio Grande do sul con un manico di scopo sostenendo che quello era il suo cavallo. Chiese un attestato sanitario per far entrare l’animale. Era in pieno svolgimento del “Freio de Ouro”, il gran premio della razza creola. Qui gli abitanti sono chiamati “gaucho”, antico nome che si usava, e si usa tutt’oggi, per indicare coloro che cavalcano a pelo, vagando nella pampa, perdendosi, precisa Eliane Brum, «per ritrovarsi nella vertigine orizzontale della pianura».
Ferreira è figlio di poveri, non è mai stato a scuola, sa leggere soltanto i numeri, ma frequenta i corsi universitari di zootecnica, e assiste anche agli esami dei “colleghi”, con quella sua testa rasata a zero alla maniera delle matricole. Pare che abbia dato qualche esame. Ma lui, avendo deciso che il suo metro è un manico di scopa, è convinto di raggiungere la laurea. Vive e dorme dove può: o vicino a un distributore di benzina, a volte a casa di suo zio, oppure a bordo di una vecchia Volkswagen. Appiccicato ai vetri, spia volentieri le mandrie delle “fazendas” più grandi. Quando si sveglia afferra un cellulare-giocattolo, si pianta davanti al portone del Banco do Brasil e ordina al principale «carica il bestiame!».
Da quando ha scoperto la più importante fiera del Rio Grande, non ne ha persa una. È sporco, ha i pidocchi in testa, allora i veterinari gli fanno il bagno, lo disinfettano e qualche volta gli regalano un paio di stivali. Non è raro che certi sponsor gli diano un cappello, un paio di pantaloni alla gaucho e un invito alla grigliata. Dorme in una stalla nel capannone di isolamento, in mezzo a giumente e tori ammalati. Quando si esibisce con il suo manico di scopa la gente applaude e ride. Anche lui ride perché è contento.
Eliane Brum s’interroga sull’origine del termine gaucho. È incerta. Un etimologista sostiene che il gaucho «è un animale orfano di madre, povero, indigente». Secondo un altro studioso, è un vagabondo. Altri dicono che è un uomo che non sa camminare a piedi, «un cowboy d’avventura, mandriano di sogni e pericoli, padrone di sé, viandante di larghi orizzonti».
Vanderlei Ferreira risponde volentieri alle domande della giornalista. Spiega che ha fatto la fame durante un percorso di seicento chilometri, «la cosa peggiore della mia vita… ci ho messo tre giorni, ma ce l’ho fatta. Un cavallo vero l’ha montato una sola volta». «E come è stato?» gli chiede la giornalista. Risposta: «Molto meglio di un manico di scopa». «Tu lo sai che questa è una fantasia, che il tuo cavallo è solo un manico di scopa. E con tutto ciò, vai in giro galoppando su un cavallo di legno. Perché lo fai?». Il ragazzo sorride: «Senza un po’ d’invenzione, la vita non ha gusto. Diventa tutto molto difficile». Eliane Brum insiste: «C’è gente che pensa che sei matto…». Ferreira risponde: «Vuoi sapere la verità? Chi pensa che sono matto non ragiona». La giornalista, alla fine dell’intervista, annota: «Ci ho messo un po’ di anni a capire che il gaucho sul cavallo di legno mi aveva dato la migliore definizione di quello che è la vita umana: tutti quanti noi abbiamo un manico di scopa e desideriamo un cavallo. La vita è questo movimento, sempre incompiuto, tra un manico di scopa e un cavallo».
In un altro capitolo, Eliane Brum riferisce dell’incontro con il signor “T.” nella sua casa a San Paolo. Non rivela il nome, per una sorta di riservatezza. Nel suo appartamento vive con la moglie, che offre per l’occasione dei pasticcini. Ci sono vasetti di fiori, ma tutti di plastica. In un angolo la statuetta della Madonna. La giornalista si accorge subito di un rumore sordo, ma soltanto dopo qualche minuto capisce che proviene dal petto del signor T., che indossa «una delle camicie dei poveri, già viste altrove, sono le camicie dei lavoratori di serie B, la dimensione di una vita intera». La vita dell’intervistato è stata regolarissima. Oggi per i due coniugi è quasi una festa perché incontrano uno che scrive sui giornali. Il signor T. emette un rumore rauco, il suo petto si alza e si abbassa «come se i polmoni volessero risucchiare tutta l’aria a ogni inspirazione e ogni volta non ci riuscissero… come un pesce, pensai, un pesce destinato a morire tra un minuto… quell’occhio fisso di T. era lo stesso del pesce buttato sulla sponda del fiume, proiettato di colpo fuori dal suo mondo».
Ma perché respira e guarda come un pesce in fin di vita? La colpa è dell’amianto di una multinazionale presso la quale ha trovato lavoro. Chi ha oltrepassato quei cancelli viene poi a sapere che potrebbe morire per asfissia o per cancro (mesotelioma). «Quando la fabbrica ha aperto – racconta il signor T. – tutti volevamo andarci. Era grande e pensavamo che fosse una bella cosa». Quella fabbrica la si potrebbe denunciare, suggerisce Eliane Brum. Il signor T. ha una reazione nervosa: «Volevano farci firmare una carta con la quale ci si impegnava a non intentare causa alla multinazionale». Racconta la giornalista: «Ho visto l’odio nei suoi occhi mentre raucamente diceva “No, non firmerò mai. E non accetterò nessun accordo. Dovranno riconoscere che mi hanno ammazzato, la Giustizia li obbligherà a riconoscere quello che ci hanno fatto. Io morirò, ma il mondo intero saprà che loro sono degli assassini”».