Covidiario di un Contagioso
Foucault e l’incertezza
Il nostro Giuliano Compagno è positivo. Ha deciso di raccontare la sua esperienza - dura - con il Covid. Questo è l'inizio del suo diario (con l'incertezza della malattia e la percezione di una battaglia tutta da combattere) che diventerà un libro, "Referti letterari", in uscita a gennaio prossimo
Sabato mattina 17 ottobre, al terzo colpo di tosse, mi domandai molto seriamente se sarebbe stato meglio dar retta a Croce o a Kant. Al quarto smisi di confidare in un errore impuro. Al quinto, infine, mi chiesi se non sarebbe stato il caso di abbandonare l’incertezza e di lì andare a vedere. E allora scelsi Immanuel Kant. Ero passato attraverso mesi di spavalderie, di febbri, bronchiti, improvvise riprese, dispnee, e un’estate luminosa di primo luglio, poi risalita verso Jenne, un paesino dolce da cui contemplavo molte e molte stelle. Quel periodo era terminato. La collettiva sfrenatezza di un mese italiano dato a godere aveva lasciato per terra l’immondizia dei biglietti strappati, ciascun numero un contagiato, uno scappato, l’altro rientrato a casa fuori orario.
“È arrivato, forza! Comincia a credere che ce l’hai!”. E allora sono entrato in clausura, dove architettare il mio luogo serrato, il mio antro di verità. Ne riconosco ogni tono ma stavolta la tosse mi rendeva una voce strana, e da dentro ascoltavo rumorii diversi, come degli spostamenti di mobilia.
La notte, agitata. L’indomani lascio che trapelino segni di cedimento, avviso che non ce la farò ad accompagnare le bambine a scuola. E siccome solo un buon Creatore poteva regalarmi una condomina ateniese di professione pneumologa, ella mi prescrive subito una cura d’assalto a parare i polmoni, poi si vedrà. Irene Lemontzi mi aveva introdotto ai versi di Gianni Ritsos e me ne aveva donati alcuni…
Dopo tanti bombardamenti a tappeto
rimase intatto soltanto un muro della grande chiesa
con l’alta finestra; intatta anche
la bella vetrata della finestra
con colori viola, arancioni, azzurri, rossi
e raffigurazioni di fiori, uccelli e santi.
Perciò confido ancora nella poesia.
I cortisonici li assumevo da bambino per via dell’asma bronchiale e a dodici anni mi ero fatto rotondo. Il deltacortene si sfarina in bocca in attesa del primo sorso. Temperatura bassissima, freddo corporeo, stordimento. Altri sintomi no, ma bastano quelli. Lunedì, ancora nulla che esploda, sebbene avverta la sua presenza. Sta cercando di separarmi da me, di creare delle zone di dispersione, dei vuoti. Covid è il parente più lontano dell’Influenza, che invece lascia tracce, rimandi, informazioni. Lui no, lui disperde, depista.
Questo è un affare serio: Michel Foucault ricorda che nelle Diatribe, l’essere umano è colui che “è stato delegato alla cura di sé”. E tanto è fondamentale questa citazione che il filosofo ne fa titolo di un volume da antologia. Svalutare il Covid è un’occasione mancata. Rispetto chiunque la pratichi ma non mi appartiene, e intanto trascorre un’altra notte, la temperatura non passa mai i 36. Ho freddo, sto perdendo soffi di curiosità, manca il desiderio, mi distendo a occhi chiusi. Non ho ricordi. Attendo il primo segnale, manca poco. “Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe”, mi dice Pessoa. Vuol dire che manca poco.