A proposito di "Nomi propri"
Poesia da seduto
La poesia di Claudio Pasi dimostra come non sia necessario spaziare per l'universo mondo per essere universale. I suoi versi si aprono alla vita (e alla riflessione sulla morte) pur rimanendo legati al suo paese, Molinella
Dopo venticinque anni di silenzio poetico, interrotto soltanto da qualche sporadica anticipazione in rivista, Claudio Pasi dà alle stampe due libri a poca distanza l’uno dall’altro, Nomi propri (Amos 2018), di cui ci occupiamo e Ad ogni umano sguardo (Aragno 2019, clicca qui per leggere la recensione di Giuseppe Grattacaso), entrambi caratterizzati da una voce sommessa ma sicura nella sua adamantina classicità, dal timbro inconfondibile. Nel più recente, assistiamo a una sorta di originale applicazione letteraria della relatività ristretta di Einstein, con una contrazione dello spazio e una dilatazione del tempo: il luogo di ben scarsa estensione è Molinella (Bologna), dove l’autore è nato, e gli immediati dintorni; gli accadimenti di cui si parla, che siano storici o privati, coprono un arco cronologico di quasi due millenni. Qui invece a dominare è il tema della morte declinato sul versante più intimo, o di una grave malattia che introduce nella schiera di coloro «che hanno sfiorato la morte»; ma il posto è lo stesso, se addirittura la nota biobibliografica che precede il frontespizio, Indicazione, è sovrastata da una cartina topografica di Molinella: sebbene si tratti di una consuetudine della collana, non potrebbe essere più adatta al caso specifico. Per essere universale, la poesia non ha bisogno di spaziare per l’universo mondo.
A ribadire il tenace legame con questa sorta di umile hortus conclusus, le tre sezioni sono inquadrate da due testi singoli: quello introduttivo, Nel giardino, si apre non a caso con il deittico «Seduto qui» e registra minime impressioni sensoriali («Scie di aerei si incrociano nel cielo», «Da lontano / il rombo di una moto»), per poi constatarne l’irrimediabile volatilità («Ma anche questo / adesso è già passato, irripetibile»); quello conclusivo, «in dialetto bolognese nella variante rustica orientale», è intitolato in modo eloquente Il posto giusto (citiamo in traduzione) e si chiude in perfetta simmetria con le parole «questo qui è il luogo / da dove si va pian piano in nessun luogo».
La prima sezione, Via del dolore, contempla la malattia e la morte del padre raccontata attraverso le quattordici stazioni della via crucis, ciascuna delle quali è designata con una pericope latina desunta dall’Exercitium Viae Crucis di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. C’è corrispondenza precisa tra le stazioni e le varie fasi del decorso patologico, mentre il ricordo si incarica di ravvivare con immagini del passato, e al tempo stesso di rendere più penoso, il triste presente; una punteggiatura esclusivamente di semplici virgole dà all’accavallarsi degli endecasillabi un ritmo affannoso. Ma la via del dolore non è affatto terminata. Nella seconda sezione di nove testi, A cuore aperto (da prendersi alla lettera), l’autore tratta con sereno distacco della propria esperienza ospedaliera. Non si può passare sotto silenzio una Coincidenza di date (e ce ne sono altre nella poesia di Pasi): «Il 30 agosto del 2013, / mentre i chirurghi fermano il mio cuore / e deviano il mio sangue in una macchina, / in un altro ospedale, oltre duemila / chilometri distante, in questo giorno, // come saprò più tardi dai giornali, / si è fermato anche il cuore del poeta / Seamus Heaney. Attraversando il limbo, / durante l’ora e mezza di non vita, / magari l’avrò visto, con il volto // da contadino e la camicia a quadri». In Dediche e anniversari (di nuovo nove testi) si continua sullo stesso tono, con la morte di uno studente per incidente stradale, di una insegnante di disegno, del suocero.
Quale la ragione del titolo? I nomi propri, da quello raro del padre, Revel, ai più comuni dello studente Lorenzo e dell’insegnante Marcella, contribuiscono a creare o a rendere più concreta e tenace una corrispondenza d’amorosi sensi, grazie alla quale chi non è più è ancora con noi. Particolarmente significativo in questo senso Passaggio di vestiti: «Metto un cappotto che era di mio padre, / […] che mia madre / ha voluto tenessi per ricordo / e per – “è quasi nuovo” – un’avversione / atavica agli sprechi. Così, mentre / lui di nuovo cammina nell’inverno, / io occupo lo spazio del suo corpo / e non so quale mano stia sfiorando / questi bottoni d’osso, gli alamari». E la vita continua, con il componimento di chiusura, a parte l’ultimo isolato di cui abbiamo già detto, A mio figlio Enrico nel compimento del diciottesimo anno di età.