Visto al cinema
Tenet, alla rovescia
Il nuovo film di Christopher Nolan è quasi un capolavoro matematico. Inseguendo la teoria della causalità inversa di Feynman, il regista costruisce una storia dove il mondo va alla rovescia. Ma senza alcuna partecipazione empatica ai fatti
Il sodalizio tra il regista Christopher Nolan e il premio Nobel per la fisica Kip Thorne, già coinvolto nei viaggi spazio-temporali di Interstellar, si rinnova e il risultato è Tenet, un film a dir poco fuori dalle righe. Un film denso, difficile da sviscerare dopo una sola visione (ma probabilmente anche dopo la quinta…), spinto ai limiti del possibile e, tuttavia, tecnicamente inattaccabile. L’ennesima sfida del regista londinese che gioca con lo spazio-tempo come fosse pongo, fa centro nell’ottenere gli occhi del pubblico letteralmente incollati allo schermo, intenti a non tralasciare nessun dettaglio vitale, ma suscita anche qualche disappunto.
Tenet è un film d’azione globale, su vasta scala, in cui ogni persona o molecola si trova coinvolta in un continuum temporale e lotta perché quest’ultimo continui ad accadere. Per godere appieno della pellicola, infatti, è necessario abbandonare la logica lineare a cui siamo tutti saldamente legati – cosa già di per sé non banale – e concedere ai nostri sensi di sperimentare intrecci temporali e azioni che sviluppano tra loro una relazione di effetto-causa anziché di causa-effetto. Può sembrare assurdo, ma la teoria scientifica che sta alla base è abbastanza semplice: è la teoria della causalità inversa di Feynman, il quale suppose che un positrone potesse essere considerato come un elettrone che “viaggia” in senso contrario. La parola “viaggiare” in realtà è inesatta: non si tratta di un viaggio nel tempo vero e proprio, piuttosto di uno sviluppo degli eventi contrario a quello a cui siamo quotidianamente abituati. E così, passando dal micro al macro, i proiettili entrano nelle pistole, gli edifici distrutti si ricompongono e un incendio assorbe calore invece di cederlo.
La sensazione è quella di un “tempo assoluto” che prescinde dal “tempo relativo” in cui ogni personaggio agisce; non esiste passato né futuro, solo l’alternanza di causalità inverse fra loro, atte a preservare un equilibrio che, con ogni probabilità, è destinato a ripetersi all’infinito. Se John David Washington, nei panni del carismatico Protagonista, e il suo brillante compagno di squadra Neil, elegantemente interpretato da Robert Pattinson, non fossero riusciti a fermare l’egomane Andrei Sator dal tentativo di distruzione del genere umano, il buon vecchio Nolan non avrebbe nemmeno iniziato a girare il film, poiché nessuno degli eventi avrebbe potuto avere luogo.
La scena in cui il Protagonista decide di suicidarsi – dopo essere stato catturato durante l’operazione al Teatro dell’Opera di Kiev – chiude la parte iniziale del film, ma è di fatto il centro della narrazione: non a caso egli è posizionato tra due binari ferroviari sui quali si stanno muovendo due treni, uno in avanti e uno all’indietro. Da questo preciso momento parte l’inversione: l’organizzazione chiamata Tenet “porta indietro” il Protagonista e lo recluta per una missione volta a evitare l’accensione di un dispositivo che distruggerebbe l’intera umanità. Le informazioni che gli vengono date sono poche, quasi scarse per la portata dell’incarico; più avanti si scoprirà che molti dei personaggi coinvolti fin dall’inizio arrivavano da un “universo invertito” ed erano già a conoscenza di eventi che, nel tempo del Protagonista, dovevano ancora accadere.
Il susseguirsi di missioni in inversione avviene – attraverso una macchina, una rota, creata da scienziati di un imprecisato futuro – a un ritmo vertiginoso. Qui, la maestria di Nolan con la macchina da presa è indiscutibile: sono di grande effetto sia le scene con i mezzi pesanti (alle quali Nolan è tanto affezionato da comprare un Boeing 747 appositamente per farlo esplodere) sia quelle girate per essere poi montate al contrario, come il lancio sul palazzo di Mumbai eseguito con gli elastici da bungee-jumping. Particolarmente sofisticata la parte finale, dove le scene sono girate dal punto di vista alternato delle due squadre d’azione (blu e rossa), aventi entropia inversa, e perciò appaiono specchiate agli occhi dello spettatore. Il montaggio è potente, studiato per impressionare, come del resto lo è la colonna sonora, che incalza e tiene alta l’attenzione correndo dietro ai personaggi (in alcuni punti perfino quella appare invertita). La scelta del formato IMAX, già fatta in precedenza per Dunkirk, aiuta ad accrescere la spettacolarità, sottolineando ancora una volta quanto le sale cinematografiche siano “senza tempo” e indispensabili anche in un’epoca in cui si può avere (quasi) tutto sul piccolo schermo.
Tuttavia, tralasciando le affascinanti simmetrie temporali e le suggestive evoluzioni in camera, quello che perplime il grande pubblico è la mancanza di empatia. I personaggi combattono per evitare un’imminente catastrofe mondiale indossando gli stessi abiti (e la stessa aplomb) con cui andrebbero a cena al Masa di New York, questo è vero. Sator e la moglie Kat sono le uniche figure, sebbene un po’ scontate e stereotipate, ad avere un profilo psicologico più delineato, che le fa agire sotto impulsi di gelosia, rabbia e desiderio di vendetta. Per il resto i rapporti personali sono ridotti al minimo.
Proprio da qui però emerge un nuovo valore, quello della collettività: non si pensa più in funzione del singolo individuo, di un legame biunivoco tra due soggetti, il punto focale della questione diventa l’umanità. Che sia forse l’unica arma per ristabilire un po’ di ordine, l’unica salvezza in un mondo dominato dal caos e dall’egoismo? “Niente amici al tramonto”, eppure la cooperazione sembra davvero l’unico modo per uscirne. Ogni riferimento al pre e post Covid-19 – inclusa la mascherina per la respirazione nella realtà invertita – è puramente casuale, ma grazie a Nolan potremmo anche smettere di credere alle coincidenze.