Daniela Matronola
A proposito de "La gioia fa parecchio rumore”

Falcao e Pitagora

Il nuovo romanzo di Sandro Bonvissuto mescola alto a basso, la geometria del calcio di Paulo Roberto Falcao e quella filosofica di Pitagora. Una storia di formazione che mette al centro Roma, la sua lingua e la sua millenaria leggerezza

Di Sandro Bonvissuto, Filippo La Porta disse che Dentro (raccolta di tre racconti edita da Einaudi) fosse stato il miglior libro d’esordio del 2012. Bonvissuto ora torna con un romanzo portentoso, di grande scrittura (La gioia fa parecchio rumore, Einaudi, pagg.200, 18,50 Euro), in cui si conferma, oltre che narratore, sondatore attento di grandi temi esplorati con speculazione leggera e precisa e con approccio esistenzialistico.

Apparentemente il libro è un peana: alla Roma, squadra di lunga gloria calcistica, e al suo più leggiadro campione, il brasiliano Paulo Roberto Falcao, che, esattamente come Federer il tennista e san Filippo Neri, incedeva in estasi, cioè a una buona spanna da terra. In sostanza, questo romanzo strepitoso e sommesso, di grande valore per visione e raffinatezza estetica e linguistica (non parlo di politezza, ma di intelligenza e intuitività del dettato, capace anche di evocare una romanità naturale, e di limpidezza ragionativa nella lingua) è un romanzo di formazione e una sorta di educazione sentimentale.

Il suo eroe incontrastato è un ragazzetto romano presto conquistato all’identità romanista e presto incaponito a cullare e covare una smisurata passione dentro la quale apprendere un sentimento, una consonanza: coincidere come individuo con una comunità, di essere unità e gruppo secondo un sistema di cerchi concentrici che ha una benedetta radice numerica: il 5, la maglia di Falcao! Non è affatto banale come può sembrare a un primo sguardo, ed è arduo rendere in una recensione la maestria dell’autore nel far coincidere tutti questi piani, nel far girare come lui sa fare tutte queste ruote, alte e basse, del meccanismo narrativo che è anche un dispositivo del pensiero. La faccenda è pitagorica nel senso proprio della tavola dei numeri strutturata da Pitagora: è magistrale anche il manifestarsi ricorrente del numero 5, che non solo fiocca di continuo sotto varie forme del reale, ma ha una sua bellezza estetica.

Il 5 è radice numerica innestata nel pentalfa in cui intersezione e rotazione coincidono: di qui è breve il passo al «pentagono, poligono simbolo dell’amore». Chi pronuncia queste parole? Il piccolo protagonista le ascolta da uno strano zio, non un vero parente ma un amico fraterno di suo padre, il filosofo di questa comunità popolare, sana e genuina: Barabba – un soprannome che testimonia certi meccanismi di appartenenza e adozione, altrettanto naturali in un simile consesso. «Barabba diceva che il 5 era preciso e giusto (sound, ndr) come elemento della terna primitiva dei numeri: 3–4–5 perché aveva un ruolo fondamentale nel teorema di Pitagora come valore dell’ipotenusa…». Di Barabba, ancora, il nostro protagonista, e giovanissimo apprendista, ci dice, preziosamente: «Io il mio maestro ce l’avevo davanti. Incappare nel proprio maestro è un evento fortuito, qualcosa di fatale come una collisione. Anche Barabba doveva aver avuto un maestro».

E poi arrivò LUI, e si manifestò il numero 5. E tanti piccoli segnali, anzi veri e propri segni, in una sorta di semeiotica numerologica, sono altrettante conferme di una visione. Della vita e del mondo. Ma gli insegnamenti più grandi che il nostro piccolo eroe riceve sono altri due: si guadagna la reputazione di piccolo filosofo (il nonno lo chiama «Amleto, anzi Ambleto», e la mamma gli dice che lì è sprecato) e impara che per essere ragionatori efficaci (e non aporetici, aggiungiamo noi) bisogna essere puri di cuore (il “nostro”, la voce che racconta, in cui coincidono l’autore e il suo corrispondente di finzione, nel corso del libro sviluppa un gusto: mostrare sempre con la scrittura i passaggi logici, spostando pochi elementi, a volta sottraendone); e poi impara, e noi con lui, la gratuità dei gesti, ad agire per gli altri, a vantaggio e a sostegno degli altri, senza aspettare ricompense, che è la forma più alta d’amore.

E impariamo la gratuità del bene: un dettaglio del temperamento che il “nostro”, un ragazzino, ha in comune col personaggio premiato di Marco Carrera, che da bambino, più lento dei suoi coetanei a crescere, fu soprannominato da sua madre colibrì, uccellino che batte forte le ali per restare fermo. Il libro di Bonvissuto è uscito a febbraio, appena prima del lockdown: in una settimana è stato al centro, mi pare di poter dire, di un piccolo caso letterario: presentazioni, incontri. È un grande romanzo.

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