Tra burocrazia e privilegi
Salviamo il teatro
L'Italia è un paese corrotto e il teatro - specchio fedele della società che rappresenta - ne è uno dei settori più corrotti. Ma il covid - con la complicità di una politica cieca e incompetente - rischia di ucciderlo. Ecco perché dobbiamo salvarlo
Archiviata la tornata elettorale nella quale i populisti hanno «vinto il referendum ma hanno perso il paese» (come ben argomenta un titolo del quotidiano Domani), possiamo finalmente occuparci di cose serie. Di teatro, per esempio. Non sembra stare a cuore a nessuno, infatti, il futuro di un rito sociale che da quasi duemila e cinquecento anni forgia i destini dell’umanità e le sue varie declinazioni sociali. Le questioni sul tavolo sono molte e riguardano sia le scelte estetiche, sia quelle politiche, sia quelle burocratiche (che con le altre due si intrecciano).
Un breve cenno alle prime, perché le questioni estetiche vanno discusse con competenza, mentre ormai siamo diventati una popolazione di tifosi e di frequentatori di bar. Qualche giorno fa, a Roma, un pubblico eletto – richiamato all’Argentina dal Festival Roma Europa – ha applaudito due repliche (nello stesso giorno, pratica per altro inusuale) uno spettacolo di Milo Rau, astro consolidato della scena internazionale. Spettacolo non è il termine esatto: si è trattato per lo più di un film che prevedeva modeste interazioni dal vivo. Ecco qual è il problema estetico del teatro contemporaneo: aver abdicato al suo specifico pensando che non sia più ottenibile una relazione emotiva tra pubblico e attori vivi e attivi in contemporanea. Il profluvio di apparati tecnologici che caratterizza, spesso, gli spettacoli più acclamati dagli addetti ai lavori – non sempre dal pubblico normale – non è il frutto di un adeguamento alla contemporaneità, ma la resa incondizionata di un linguaggio millenario che proprio sull’artigianato, sulla compresenza fisica di due soggetti vivi ha costruito il suo mito. Insomma, il teatro ritiene di non bastare più a se stesso: la storia – per chi conosce la storia del teatro – dovrebbe insegnare che in queste condizioni il teatro ha sempre capitolato, ai tempi dell’Imperatore Giustiniano o quelli di Oliver Cromwell.
E questo – ossia la scarsa fiducia che il teatro ha in se stesso – è il problema maggiore.
C’è poi la questione politica che a propria volta pesa moltissimo sul futuro. Il covid ha chiuso i teatri come tutto il resto delle attività sociali, da marzo a giugno scorsi. Tutto è tornato a vivere – diciamo meglio: a sopravvivere convivendo con il virus – ma il teatro no. Le istituzioni si limitano a fare programmi da qui a dicembre, poi non si sa. L’estate è stata una buona cartina di tornasole della società italiana: mentre le Regioni (dopo che il governo aveva delegato loro la libertà di decidere in merito) hanno riaperto le discoteche in nome del rilancio dell’intrapresa privata, di fatto infettando le vacanze degli italiani in nome di un fatturato per lo più esentasse, i festival teatrali (regolarmente sovvenzionati dallo Stato, e basta) hanno organizzato alla bell’e meglio programmi risibili fitti di monologhi o altre scemenze occasionali messe su con la speranza di acchiappare un pubblico disattento ma soprattutto per giustificare i contributi pubblici ricevuti.
In questi stessi mesi bui, il caso ha voluto che si radicalizzassero le crisi di gestione di alcuni tra i maggiori teatri pubblici italiani: il Teatro di Roma e il Piccolo di Milano, innanzi tutto. Come la politica (per lo più sotto la gestione dei due dominus del ministero competente, Salvo Nastasi e Ninni Cutaia) abbia gestito queste crisi è sotto gli occhi di tutti e ha già suscitato commenti lucidi e indignati da parte di osservatori fra loro diversissimi (leggete gli interventi in merito di Anna Bandettini sul suo blog di Repubblica, di Franco Cordelli sul Corriere della Sera e di Katia Ippaso sul Messaggero). Non starò qui a commentare i fatti (mi sono dimesso dal Consiglio d’amministrazione del Teatro di Roma per protesta, e tanto dovrebbe bastare a chiarire la mia posizione in merito): suggerirò solo ai lettori un particolare che forse sfugge ai più. Per i teatri pubblici il covid è stato un ottimo affare. La gran parte dei Comuni che finanziano Tric e Teatri Nazionali hanno lasciato inalterati i loro contributi per il 2020, così come il ministero ha deciso di finanziare quasi per intero, malgrado il fermo delle attività dovuto appunto al covid, tutti i soggetti che a vario titolo in passato avevano avuto contributi dal Fus (Fondo unico dello spettacolo): Teatri Nazionali e Tric, soprattutto, sono stati premiati così in modo esponenziale. Il perché è presto detto.
Conosco bene il caso del teatro Argentina di Roma (ma la questione è identica per tutti i teatri pubblici italiani): ogni rappresentazione ha un costo. In genere, i Teatri Nazionali pagano alle compagnie che ospitano un cachet che va tra i 9000 e i 12 euro a recita. L’incasso relativo (che a questo punto va per intero al teatro ospitante) raramente supera gli 8000, 9000 euro lordi. A queste seconde cifre (8/9 euro di incassi lordi) vanno tolte le tasse, la Siae, i consumi e costi di gestione come l’impiego dei Vigili del Fuoco e del personale di sala. Come si vede, lo scompenso economico di ogni recita è alto e assomma, a seconda dei casi, a qualche migliaio di euro. Questo “scompenso” è ciò che di norma le istituzioni (Comuni, Regioni e Ministero) coprono con i loro contributi. Del resto, i cachet servono a pagare gli attori, i tecnici e gli amministratori delle compagnie ospiti. E, dunque, il contributo pubblico, spalmandosi sui teatri che poi lo riversano sulle compagnie che a propria volta lo destinano a pagare il lavoro di artisti e tecnici, rappresenta il vero motore economico del teatro italiano. Gli incassi da botteghino, di norma, coprono una parte esigua del bilancio di un teatro pubblico: mediamente si arriva al 20% del fatturato, benché spesso i bilanci siano costruiti in modo da nascondere queste percentuali.
Ebbene, nel corso del 2020, da marzo a settembre, i teatri pubblici hanno “guadagnato” l’intero disavanzo di cui sopra: non svolgendo attività, hanno evitato di perdere soldi sera per sera: non hanno pagato le compagnie (ossia attori e tecnici degli spettacoli che era stato programmato di ospitare), non hanno pagato Siae, non hanno pagato i Vigili del fuoco, non hanno pagato il personale di sala. Ecco perché i teatri Nazionali e i Tric si affacciano a questo autunno promettendo sontuose nuove produzioni: ogni istituzione ha “risparmiato” i costi di cento/centoventi rappresentazioni, perciò l’attivo di bilancio è stato di qualche centinaia di migliaia di Euro.
Qual è la conseguenza di tutto questo? Che i teatri pubblici – e chi li governa, ovviamente – resisteranno al Covid, e anzi ne usciranno rafforzati (più ricchi e più potenti), mentre il teatro privato (compagnie ed esercenti) sparirà. Anzi, è già sparito: non c’è un solo produttore privato (salvo uno o due, ossia salvo quelli che hanno contributi forti dallo Stato e dai Comuni) che abbia messo mano a una nuova programmazione. Non solo: i programmi dei teatri pubblici annunciati fin qui arrivano fino a dicembre 2020. E da gennaio 2021? Non si sa. Non si sa se il governo reitererà la sua decisione di elargire contributi anche in assenza di spese né se lo stesso faranno Comuni e Regioni, sicché la progettualità del teatro italiano si ferma al 31 dicembre 2020.
E gli artisti? Gli attori, i registi, gli scenografi, i musicisti, i tecnici che non fanno parte delle lobby che si spartiscono la gestione e i soldi dei teatri pubblici, che cosa fanno? Cambiano mestiere, se possono, altrimenti cedono alla (legittima) depressione. Il tutto nell’indifferenza generale. E mentre i pochi beneficiati dalla gestione lobbistica dei fondi pubblici (Stato, Regioni e Comuni) si fregano le mani inseguendo i “linguaggi della contemporaneità” che nessuno andrà mai a vedere (per inciso: perché devo vedere un brutto film, tecnicamente mal girato e contrabbandato per teatro se posso vedere un film vero, magari ben fatto, pagando un biglietto anche quattro volte inferiore?).
Ed eccoci al problema centrale, eccoci alla ragione vera per cui bisogna salvare il teatro dalla burocrazia e dalle lobby: il suo futuro, ossia il futuro del teatro e delle nuove generazioni che ancora credono nel teatro e ancora vogliono fare teatro. Per quanto possa sembrare paradossale, il covid ha fermato le rappresentazioni ma non le scuole teatrali. Non so se sia un buon segno o un brutto segno: di sicuro, questo dato ci dice che ci sono molti giovani disposti a investire tempo e fatica per perseguire il sogno di un’attività artistica nel teatro. Costoro non sanno, però, che le norme italiane impediscono – di fatto – la formazione di nuove compagnie teatrali (e questa è la terza questione, quella burocratica). A parte la generale politica contro il teatro privato perseguita da anni dai regolamenti che condizionano l’accesso al Fus, c’è da sottolineare che un gruppo di giovani che volesse costituirsi in compagnia, prima di raggiungere uno status professionale (tre anni di attività) che consenta l’eventuale accesso al Fus e ai bandi regionali o comunali, dovrebbe o campare d’aria o trovare un magnate disposto a investire assai denari a fondo perduto. Due circostanze di fatto se non impossibili, certamente rare. E questo perché, per esempio, le norme italiane prevedono che a ogni finanziamento pubblico corrispondano spese fiscali e contributive ingentissime. Malgrado ciò, o ignari di ciò, molti giovani attori accetterebbero comunque la sfida del futuro e si metterebbero insieme (anche prevedendo di non prendere paghe) pur di affrontare il pubblico e poter crescere artisticamente e professionalmente. Ebbene, seppure costoro potessero trovare un teatro, pur piccolo, che non chieda un affitto impossibile da pagare con i soli incassi, la loro creatività si arenerebbe di fronte agli imprescindibili impegni fiscali e contributivi imposti dalle norme. Si dirà: i contributi sono la prima forma di tutela del lavoro. Giusto, ma perché non prevedere, per esempio, per le compagnie giovani e indipendenti, il pagamento di contributi figurativi come succede in mille altri settori per lavoratori in difficoltà? Perché Stato, Comuni e Regioni non intervengono direttamente – magari con bandi appositi – pagando questi contributi figurativi?
La verità è che alle istituzioni (teatrali e no) del futuro delle nuove generazioni non interessa un fico secco. L’Italia è un paese corrotto e il teatro italiano – specchio fedele della società che rappresenta – ne è uno dei settori più corrotti. Che cosa volete che interessi a un direttore di Teatro Nazionale o di Tric di sostenere e dar spazio autonomo a giovani artisti? Chi, alla fine di un lungo inseguimento ai posti di comando – inseguimento fatto di genuflessioni più che di levate d’ingegno – è riuscito a ottenere una direzione, ossia un teatro e dei soldi certi, si occupa solo di mantenere la propria posizione. Si preoccupa di fare i propri spettacoli e potersi proclamare artista. Perché questo è il guaio della corruzione teatrale italiana: che non è motivata solo dai soldi, ma soprattutto dalla vanità di poter essere riconosciuti artisti o, a seconda dei casi, potenti.
Ecco perché tutti gli altri – e sono la maggioranza – dovrebbero ribellarsi, dovrebbero denunciare le malversazioni e fischiare i brutti spettacoli (la grande maggioranza). In caso contrario, ossia mettendosi in fila e aspettando di ottenere qualche elemosina, qualche briciola, si finirà per soccombere. Ma a farne le spese saranno tutti: gli attori e gli spettatori. A farne le spese sarà il teatro.