Giuseppe Grattacaso
L'Italia prova a ripartire

Ritorno a scuola

È stato come il ritorno al piccolo mondo antico in versione Covid 19, quello di oggi nelle aule scolastiche. Sorrisi pochi, mascherine tante. Mi lavo le mani, è la sesta volta in due ore, domani chissà che tempo farà...

L’abbiamo chiamata così, ripartenza. E anche la scuola, lentamente e con mille problemi, sta provando a ripartire. Con lei dovrebbe riprendere la marcia finalmente anche l’intero Paese. Perché senza scuola, non c’è ripartenza, l’abbiamo detto. Restano esclusi dalla spinta all’avanzamento ancora i teatri e le biblioteche, stazionari per costituzione e lunga consuetudine. Sarebbero un pezzo importante della storia e della cultura, ma insomma chissenefrega, intanto togliamo i bambini e gli adolescenti dal limbo in cui si sono ritrovati negli ultimi mesi, la palude letto-smartphone-aperitivi, il pantano senza orari e senza compiti in classe.

Sta di fatto che, a ben guardare, non proprio di ripartenza si tratta. La partenza, e la ripartenza di conseguenza, implicano un allontanamento, il distacco dal luogo dove eravamo, anche l’avvio, certo, ma non ci si avvia se non per andare da qualche parte. In questo caso invece si tratta di tornare, di restituirci ai luoghi dai quali ci eravamo allontanati. Si tratta di riprendere il proprio posto in un’aula – il mio, si sa, è all’ultimo banco accanto alla finestra – e di restarci incollati, al banco monoposto, guai ad alzarsi così anche solo per sgranchirsi le gambe, terrore dimenticare di indossare la mascherina, il parabrezza monouso. Chiamiamolo ritorno allora, perché in questo spazio di angustie intermittenti e di molto precarie felicità vorremmo anche rimanerci. Il più tranquillamente possibile, semmai.

I ritorni implicano un riconoscimento, riprendere possesso di quello che già sapevamo, ritrovarsi in uno spazio che dà sicurezza, guardarsi intorno e non avere paura. Questa volta è tutto diverso. Si torna e ci si muove a tentoni, un passo dopo l’altro a tastare il terreno, anzi passi pochi, ognuno a rintanarsi il più presto possibile nel proprio inerte metro quadro di sofferta stabilità.

A me solo a pensarci a questa scuola mono direzionata, a questo piccolo mondo che assomiglia solo in parte al mondo più grande, che sempre un po’ lo rincorre il mondo reale, ma che ancora più di quello, anzi a differenza di quello, si vorrebbe immobile, un piccolo mondo da uno due tre stella, solo a pensarci a questo piccolo mondo antico e statico, attaccato alle proprie mono certezze, mi viene tristezza. Uno due tre stella, un po’ correre in avanti e un po’ fermarsi, in equilibrio precario, mi giro e torna al punto di partenza chi scopro solo ad alzare il piede da terra. Le belle statuite, altro che uno due tre stella.

Eravamo tutti uguali stamattina, davanti agli edifici, loro granitici sì, che sembrano caserme e spesso sono stati conventi, a ritrovare un’entrata in grado di condurci senza troppe scosse all’interno del nostro ruolo di studenti, di prof, al comune destino di piccolo mondo sezionato in metri quadri. Ci sarebbe da emozionarsi a risentire le voci dei ragazzi che aspettano il suono della prima campanella davanti ai portoni, gli ingressi che sono lievitati in mille diversi accessi nel tentativo di evitare una troppo promiscua vicinanza, almeno qui, che si assembrino altrove, alle feste di compleanno dei più piccoli, alle movide serali dei loro fratelli maggiori. Movida la sera, immobilità la mattina, il gioco è fatto. Ma di voci ce ne sono poche, il rito del primo giorno diventato incredibilmente silenzioso, di sorrisi ancora meno, inutile sforzarsi a brillare del resto sotto l’indumento monouso.

Eravamo tutti uguali stamattina, studenti professori dirigenti scolastici personale di segreteria custodi, tutti maschera sul muso e occhi spalancati nella tensione del chissà cosa succederà. Piccoli e grandi, femmine e maschi, anche noi, quelli temprati da mille e mille interrogazioni, da centinaia di riforme annunciate e poi ridotte a una spolverata sulla cattedra, anche noi a cercare negli occhi di chi ci sta davanti la formula magica che ci possa difendere, che mondi antichi possa aprirci, il vaticinio che ci rassicuri, che ci dica che proseguiremo senza difficoltà.

Dovremo invece abituarci, è la sensazione, a una andatura da equilibristi, un piede dietro l’altro sul filo della precarietà, cercando di districarci tra isolamenti fiduciari, positivi asintomatici, quarantene da contatto diretto, tamponi dubbiosi, malati di altra razza, lavoratori fragili, antiche cagionevolezze da piccolo mondo.

I ragazzi di prima liceo vorrebbero mostrare un minimo di compiacimento, che non sanno dove andare a recuperare. Per loro non è nemmeno un ritorno. Rientrano in una scuola diversa, che dovrebbe incuriosirli, è stato sempre così, un po’ intimorirli e divertirli, ma di cui ora cercano solo di comprendere le caratteristiche degli spazi, quali i percorsi da compiere, che cosa non si deve fare. Non ci si deve alzare dal banco senza mascherina, ad esempio, ma molti, almeno alle prime ore, continuano a indossarla anche da seduti, che non gli si veda l’espressione preoccupata che serra le labbra. Cerchi di metterli a loro agio con un discorso vagamente rassicurante, con una battuta ironica, ma loro rimangono sontuosamente impassibili, ancorati al banco-scialuppa di salvataggio, nemmeno si voltano verso l’amico, che è pure lì asintomatico e a distanza di sicurezza, ligi all’ortodossia dell’emergenza sanitaria, sanificati e silenziosi come non mai.

È il ritorno al piccolo mondo antico in versione Covid 19. Sorrisi pochi, mascherine tante. Mi lavo le mani, è la sesta volta in due ore, domani chissà che tempo farà.

Facebooktwitterlinkedin