Periscopio (globale)
Riabilitare Dos Passos
A cinquant'anni dalla morte, è arrivato il momento di ridiscutere il valore della narrativa di John Dos Passos. Considerato solo un autore di "romanzi storici", in realtà ha messo le mani nell'identità profonda dell'America del Novecento
Come scriveva Leslie A. Fiedler già nel 1964 in Waiting for the End (Aspettando la fine), “i lettori di un romanzo come USA di Dos Passos diminuiscono giorno per giorno, a mano a mano cioè che l’importanza del suo autore si rivela esclusivamente ‘storica’ (nel senso meno eccitante della parola).” Potrà sembrare una conclusione ingenerosa, ma sembra attagliarsi, sebbene molto in generale, a tutti quelli che lo stesso, impietoso Fiedler definisce gli “insipidi romanzi pseudosperimentali” nati dalla Depressione, là dove con questo termine s’intende ovviamente quella a cavallo fra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ‘30, la Grande Depressione, insomma, che dagli Stati Uniti ha finito per fagocitare il mondo intero favorendo fra le altre cose anche lo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Ma per tornare a Dos Passos, di cui ricorre oggi il cinquantenario della morte, avvenuta a Baltimora il 28 settembre 1970, siamo davvero certi di poter chiudere i conti in maniera tanto sbrigativa? La questione si pone con forza, intanto perché indubbiamente con i suoi romanzi Dos Passos si è posto, per un decennio buono, all’origine e al centro di una corrente letteraria, il modernismo, che se oggi può sembrarci velleitaria e tutto sommato secondaria, negli anni Venti e Trenta ha rappresentato il punto di partenza di molti scrittori di rilievo, da Hemingway a Faulkner, ed era perfettamente in linea con la letteratura sperimentale che in Europa, mutatis mutandis, portavano avanti un Joyce o un Döblin. L’altro quesito, collaterale ma non meno importante, è politico: sarebbe diversa la ricezione odierna di Dos Passos se nel momento più delicato della sua carriera letteraria non fosse stato messo all’indice dalla critica militante, che lo ha isolato e probabilmente spinto ad avventurarsi, anche per orgoglio ferito e voglia di rivalsa, su posizioni sempre più conservatrici, fino all’ammirazione per il senatore McCarthy e all’appoggio attivo dato negli anni Sessanta a Goldwater e Nixon?
Non va dimenticato che in gioventù Dos Passos – nato a Chicago nel 1896, figlio di immigrati dell’isola di Madera – era stato un radicale di sinistra, con forti simpatie anarchiche. Si schiera con convinzione a favore di varie iniziative umanitarie e soprattutto a fianco di Sacco e Vanzetti, che difenderà a spada tratta con numerosi interventi, partecipando a proteste e picchetti, venendo per questo persino arrestato, e soprattutto pubblicando nel 1927 un libro-intervista, il pamphlet Facing the Chair, in loro favore, che però non potrà evitarne l’esecuzione nell’agosto dello stesso anno. Il libro, estremamente composito, in cui a più riprese la narrazione lascia il posto alla presentazione di documenti e testimonianze volte a dimostrare l’esistenza di un complotto contro i due anarchici italiani, è importante anche per capire la transizione fra il (di poco) precedente romanzo Manhattan Transfer e la successiva trilogia dal titolo USA, di cui parlerò più avanti.
Laureatosi ad Harvard nel 1916, dove incontra e diventa amico del poeta E. E. Cummings, Dos Passos vede la propria giovane vita, come quella di tanti coetanei, travolta dall’entrata in guerra degli Stati Uniti: inviato dapprima sul fronte italiano, al pari dello stesso Cummings farà parte come autista di autoambulanze della Croce Rossa, venendo in seguito spostato in Francia. (Per una descrizione della vita degli autisti di autoambulanze durante la prima guerra mondiale sui vari fronti si veda Exile’s Return (Il ritorno degli esuli) di Malcolm Cowley, all’epoca grande amico di Dos Passos.)
Benché non sia mai stato in prima linea e finisca per essere congedato nell’estate del 1918 anche per le sue opinioni antimilitaristiche, che certo non nasconde, Dos Passos vive l’esperienza della guerra in modo molto intenso, ed essa lascia naturalmente una traccia profonda nei suoi scritti, riflettendosi tanto nel primo romanzo, Initiation of a Man: 1917, (Iniziazione di un uomo), del 1920, quanto soprattutto nel secondo, pubblicato l’anno successivo, dal titolo Three Soldiers (I tre soldati), un romanzo d’impianto ancora tradizionale i cui protagonisti, che credono di trovare un senso nell’arruolamento, scoprono ben presto quanto la realtà della vita militare sia dura e deprimente, tanto che uno di loro decide di disertare.
Del 1925 è il già menzionato Manhattan Transfer, tradotto in Italia all’epoca con il titolo di Nuova York, romanzo per lui fondamentale perché è in esso che Dos Passos getta le basi del suo nuovo stile di scrittura, dove i tocchi impressionistici sconfinano ora in un assemblaggio di tipo cubista, con un impianto formale che domina un materiale apparentemente dispersivo, il ricorso a un flusso di coscienza che molto ricorda le aperture joyciane di qualche anno prima e un montaggio di tipo cinematografico. Ricordiamo en passant che Dos Passos è un grande ammiratore di Ėjzenštejn e Griffith, anche se qui la vera influenza cinematografica è piuttosto quest’ultima, poiché a quanto sembra scrive il libro prima di aver visto le pellicole del russo, che incontrerà poi a Mosca solo nel 1928. In Manhattan Transfer, analisi satirica della civiltà contemporanea che si snoda su un percorso di quasi trent’anni, dalla fine secolo alla metà degli anni Venti, e romanzo davvero collettivo, in cui compaiono decine di personaggi, la vera protagonista è la tentacolare città di New York, vista come in un caleidoscopio, che tutte queste personalità individuali assorbe e stritola. Lo stile frammentario, che a volte può destare confusione nel lettore, ha anche la funzione di estraniarlo rispetto a una realtà accettata troppo passivamente, e va detto che i meccanismi impiegati a tal fine da Dos Passos sono ancor oggi vivi e vegeti, ben presenti in almeno un filone del romanzo americano contemporaneo (fra tutti, si pensi a Don DeLillo e al suo Underworld).
Per il vero e proprio capolavoro, un romanzo-fiume in tre parti, bisognerà tuttavia attendere gli anni Trenta, quando Dos Passos dà alle stampe, fra il 1930 e il 1936, la trilogia USA, composta da The 42nd Parallel (Il 42° parallelo), 1919 e The Big Money (Un mucchio di quattrini). Qui, dinanzi all’ambizione di rendere la civiltà americana dei primi trent’anni del secolo nella sua integralità, in un sovrumano sforzo creativo di stampo whitmanniano, lo sperimentalismo si fa più accanito: il flusso di coscienza è sostituito dalla soppressione dell’interiorità dei numerosissimi personaggi, verso una voluta de-individualizzazione del racconto, mentre sul piano della strumentazione narrativa, in linea con il libro su Sacco e Vanzetti, Dos Passos si avvale dell’utilizzo non solo di elementi autobiografici, ma anche di biografie vere e fittizie, documenti, ritagli di giornale, trascrizioni di cinegiornali ecc., teorizzando quasi l’abbandono della voce autoriale. Combina così fiction e storia recente e crea una specie di patchwork narrativo in cui ancora una volta i singoli personaggi, presentati, abbandonati, talora ripresi dopo decine di pagine, sembrano più che altro pretesti e portavoce di una più generale protesta contro il mondo che il capitalismo statunitense e le condizioni economiche da esso dettate stavano creando, e con particolare accanimento nelle metropoli. Anche qui vi sono echi della Grande Guerra – si veda la lunga sequenza sulle autoambulanze al fronte francese in 1919 –, ma quel che preme maggiormente a Dos Passos è la descrizione dell’assenza di prospettive della cosiddetta generazione perduta, nel quadro di una riscrittura della recente storia americana in cui ai circoli chiusi del potere politico, industriale e mediatico si contrappongono i lavoratori, con i loro bisogni elementari e la necessità di ritornare all’utopia americana originale e alla liberazione da ogni forma d’oppressione. Forse un po’ ingenuamente Dos Passos vorrebbe far intendere tra le righe “the speech of the people”, dare cioè nuovamente la parola a un popolo a priori onesto nella corruzione generalizzata, professando implicitamente una fede nel linguaggio che la letteratura successiva, non solo americana, rimetterà in discussione.
In particolare con l’uscita del primo tomo, Il 42° parallelo, Dos Passos si afferma come uno dei più rilevanti narratori statunitensi di quegli anni, definito da Sartre addirittura “il più grande scrittore dei nostri tempi”. S’iscriveva peraltro nella sempre potente tradizione whitmanniana di canto libero e profetico, combinando individualismo e patriottismo con l’attenzione sociologica per le classi più povere e per il divario di ricchezze che in America si andava sempre più aggravando. Di questa attenzione testimonia anche la partecipazione, nel 1931, al Dreiser Committee, una commissione d’inchiesta sulle condizioni di lavoro dei minatori in sciopero nel Kentucky, nell’ambito della quale si scontrerà con i comunisti che a suo parere, anziché cercare di alleviare le condizioni dei lavoratori, ne stavano sfruttando la buona fede a scopi propagandistici. Tre anni dopo, in occasione di un’irruzione violenta dei comunisti a una manifestazione del Partito socialista americano al Madison Square Garden, il 16 febbraio, Dos Passos protesta con veemenza in una lettera aperta, parlando di “crescita di uno stupido fanatismo” e venendo accusato a sua volta di confusione e revisionismo, e di fornire, con le sue argomentazioni, munizioni agli avversari della classe operaia. (Già nel 1927, del resto, in occasione di un viaggio in Russia, era rimasto tutt’altro che impressionato dalle forme statali create dall’Unione sovietica, che gli sembravano coartare e opprimere la libertà dell’individuo.)
Nell’aprile del 1935 sarà uno dei principali partecipanti al primo congresso degli scrittori americani, apertamente sostenuto dal minuscolo Partito comunista, ma ancora una volta avrà motivi di dubitare della buona fede di quest’ultimo: attraverso tale sostegno, per nulla disinteressato, il partito intendeva infatti controllare in modo capillare la vita culturale americana. Per Dos Passos, che si sta invece gradualmente avvicinando a una visione più liberale (un liberalismo impegnato) e perfino al new deal del poco amato Roosevelt (lo considerava poco più che un abile piazzista), questo è assolutamente inaccettabile.
Fino a questo momento, come dicevamo, Dos Passos era stato osannato dalla critica, in particolare da quella marxista, che lo considerava un battistrada della nuova letteratura e un maestro del modernismo. Scrittore internazionale come pochi altri, come scrive Cowley “fu il più grande viaggiatore di una generazione di scrittori girovaghi. Quando si mostrava a Parigi era sempre diretto in Spagna, in Russia o a Istanbul o nel deserto siriano.” Il vero punto di svolta sarà rappresentato dalla guerra di Spagna, alla quale Dos Passos partecipa, come del resto l’amico Hemingway e molti altri intellettuali americani, in prima persona. Subito dopo la laurea ad Harvard, del resto, aveva già passato qualche tempo in Spagna per studiarvi architettura, e al paese si sentiva fortemente legato. Insieme con Hemingway sarà l’autore del documentario The Spanish Earth filmato da Joris Ivens e darà un contributo importante alla produzione pubblicistica e propagandistica nelle file dei repubblicani. Accade tuttavia che il suo traduttore spagnolo, José Robles Pazos, venga assassinato, e che si scopra ben presto che dietro l’omicidio non ci sono i franchisti, ma gli stalinisti, che di Robles avrebbero diffidato perché il fratello era passato nelle file dei nazionalisti oppure, secondo altre, più probabili versioni, perché Robles stesso era venuto a conoscenza di troppi imbarazzanti retroscena riguardo ai rapporti fra il governo spagnolo e il Cremlino, e alle manovre di quest’ultimo per dominare le forze antifranchiste. Dos Passos è inorridito da quello che già sospettava, ma di cui ora si va accertando: rompe non solo con gli stalinisti, ma anche con tutti coloro, come il citato Cowley e Hemingway, che tentano di giustificare l’operato di questi ultimi per ragioni di opportunità politica, in nome dell’obiettivo generale di sconfiggere il franchismo e vincere la guerra, e che quindi lo tacciano di sterile idealismo. L’esperienza si rifletterà nel romanzo The Adventures of a Young American (Le avventure di un giovane americano), che Dos Passos pubblicherà nel 1939, ma già tre anni prima, in The Big Money, uno dei suoi personaggi era appunto un idealista che crede nel comunismo ma deve scontrarsi con la prassi stalinista. Parallelamente, a partire dal 1936 Dos Passos era stato molto attivo, accanto a John Dewey ed Edmund Wilson, nel comitato di difesa di Leon Trotskij, creato quale atto di protesta contro i processi di Mosca e le relative purghe di intellettuali, rendendosi ancora più inviso ai marxisti e al Partito comunista statunitense. Fedele ai propri principi, Dos Passos afferma con insistenza il primato della coscienza critica dell’individuo e delle libertà civili rispetto a ogni forma di ortodossia di partito, vedendo in pratica nello stalinismo la deformazione fanatica del comunismo. In una lettera a Wilson scrisse: “I guess the trouble with me is I can’t make up my mind to swallow political methods” [Credo che il mio problema sia di non riuscire ad accettare di mandar giù metodi politici.]
Nel romanzo uscito nel 1939, cronaca di una cocente delusione e non all’altezza, né per ambizioni né per scrittura, della trilogia, la critica vide il venir meno di tutta l’abilità letteraria per cui era stato in precedenza lodato. Da questo momento per lo scrittore il percorso si fece in salita, e la perdita di prestigio non sarebbe mai più stata compensata da nuovi successi. Divenuto una specie di “nemico del popolo” per la critica marxista, trattato con diffidenza e impazienza dal resto dei critici, oggetto degli strali di molti ex amici, fra i quali Hemingway, Dos Passos rimase impantanato, anche sotto il profilo letterario, in una stanca ripetizione di moduli che non sarebbe riuscito a sviluppare ulteriormente e che sarebbero presto passati di moda. Difficile dire, oggi, quale sia stata la causa e quale la conseguenza: probabilmente il crescente fastidio critico e l’incapacità di evolversi si sono intrecciati inestricabilmente, conducendo a un depauperamento dell’ispirazione e a un ripiegamento su se stesso.
Da registrare vi è però anche qualche incoraggiante, ancorché parziale, affermazione. Appassionato d’arte e grafica, e pittore dilettante, Dos Passos creerà anche molte delle copertine dei suoi libri. Né mancherà in quegli anni al suo curriculum l’esperienza hollywoodiana, quasi un must per gli scrittori suoi contemporanei, visto che scriverà per Josef von Sternberg la sceneggiatura di un film di successo, The Devil Is a Woman, interpretato nel 1937 da Marlene Dietrich. Di notevole importanza anche l’attività giornalistica e di reportage su vari fronti che lo impegnerà nei trent’anni seguenti.
La successiva idealizzazione dei padri fondatori americani e della cosiddetta Golden Age, e lo scivolare sempre più a destra, nell’illusione che questa parte politica favorisse maggiormente la libertà dell’individuo, provocherà il definitivo scollamento fra le esperienze di scrittura giovanili e quelle del Dos Passos maturo. Il quale, fino all’ultimo libro, Century’s Ebb, uscito postumo, continuerà comunque a riflettere sulle grandezze e miserie del proprio paese, di cui detestava la gigantesca e spersonalizzante burocrazia, chiedendosi dove e in quale momento la sua generazione avesse fallito.
Per lunghi anni dimenticato anche qui da noi – non figura nemmeno nell’antologia Americana di Vittorini del 1941 –, Dos Passos si riscatterà con il premio Feltrinelli ricevuto nel 1967 per l’insieme della sua opera, che si aggiunge, quanto a onori tardivi, all’elezione, nel 1947, alla American Academy of Arts and Letters e alla medaglia d’oro per la fiction del National Institute for Arts and Letters consegnatagli da Faulkner nel 1956. Magro bottino, tutto sommato, per un grande e spericolato innovatore, il cui contributo allo sviluppo della narrativa del secolo scorso è ancora tutto da studiare e forse da rivalutare.