Raoul Precht
“L’ultimo sesso ai tempi della peste”

L’ospite e la maratoneta

«Rispetto all’ospite, la maratoneta dispone di tutt’altra grazia, d’un aspetto assai più ricercato. Continuo a chiamarla così per una specie di convenzione, ma in realtà potrebbe essere tanto una vera adepta della marcia quanto, più semplicemente, un essere umano interessato a preservare una determinata forma fisica»

Nello scenario apocalittico del recente lockdown, e mentre il virus colpiva duramente, Filippo Tuena ha avuto l’idea di raccogliere una cinquantina di racconti sul tema “L’ultimo sesso ai tempi della peste”, ognuno dei quali doveva rispondere alla domanda: come è, o potrebbe essere, l’ultimo sesso prima della fine? I racconti sono poi confluiti in un e-book pubblicato a fine giugno da Neo Edizioni; è stato stabilito che i proventi dell’intero progetto editoriale siano devoluti al Centro Senologico dell’ospedale “G. Bernabeo” di Ortona ‒ ASL Lanciano-Vasto-Chieti (Abruzzo).

Pubblichiamo qui di seguito, anche a mo’ di scongiuro contro un eventuale secondo lockdown, uno dei racconti, quello di Raoul Precht, in cui il virus è protagonista assoluto e incontrastato.

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(modesto omaggio a C.E.G. e G.M., in memoriam)

Potrei cominciare dall’ospite. Del resto, ad abitare questa storia siamo solo in tre: l’ospite, la maratoneta e il sottoscritto, non c’è troppo da discernere e soppesare. Dei tre, l’ospite, dispiace dirlo, è di gran lunga il più sciatto: sporco, la barba lunga d’un colore indefinito, infagottato in un pantalonaccio da lavoro e in una maglietta in più punti perforata, da uomo di fatica, ne avverti la presenza anche da lontano per il caratteristico afrore che emanano le ascelle, per la patina diaforetica prodotta dai pori, a testimonianza di un certo titubare nel sottoporsi a opportuni lavacri, a provvide abluzioni. È lui, però, con le sue pulsioni, il motore di questa breve storia, quindi dovrei forse trattarlo meglio; è lui, non io, ad appostarsi nel parco metropolitano con mille precauzioni, ben celato da folti e rinvigoriti cespugli, in attesa dell’occasione a lungo guatata ma ancor dubitabile, esposta all’alea che immancabile presiede a ogni incontro, voluto o subìto. Ed è sempre lui, in posizione di sterile attesa, a trascorrere minuti, forse ore, in ogni caso corpose porzioni del tempo che gli è concesso in questa vita, sperando nell’avvento per cui si sta mentalmente consumando.

Da parte mia, lo affianco, lo ispiro, forse in parte lo comando, cerco di impartirgli la giusta disciplina. O, almeno, mi piace crederlo. Al momento opportuno, comunque, vedrò di guidarne l’impeto, piegandolo alle mie esigenze, perché naturalmente dei suoi successi non mi cale neanche lontanamente; sapere se i suoi progetti andranno a buon fine, se il suo criminoso intento, ben catalogato da un pur obsoleto codice penale, si trasformerà in esperienza reale e non solo sognata o si tradurrà in fallimento, m’è indifferente nel modo più sovrano; quel che conta è che trionfi il mio, di progetto, che possa dar vita, io, a quella catena di movenze le quali, combinate fra loro, significheranno infine invasione, scissione e moltiplicazione, possesso e proliferazione.

Rispetto all’ospite – sarebbe ingiusto non rilevarlo – la maratoneta dispone beninteso di tutt’altra grazia, d’un aspetto assai più ricercato. Continuo a chiamarla così per una specie di convenzione, ma in realtà potrebbe essere tanto una vera adepta della marcia o corsa campestre quanto, più semplicemente, un essere umano interessato a preservare una determinata forma fisica e disposto magari a sottoporsi solo in modo sporadico e discontinuo alla tortura dell’inutile dinamismo di singoli organi, tendini e muscoli. Non lo so, non m’interessa troppo neanche questo. Vedo però come l’ospite la registri, come prima la scorga in lontananza, sorpreso e compiaciuto, e poi l’analizzi nella tonda cornice del binocolo, come (dall’improvviso turgore di certe riparate parti del corpo) sembri proprio apprezzarla, e come questa sua pericolosa eccitazione, ormai azionata, si stabilizzi. Pericolosa, chiariamolo, dal mio punto di vista, perché a seconda del suo evolversi potrebbe condurci, irreversibilmente alleati come siamo, anche a un improbabile, ma mai del tutto escluso, fallimento.

La maratoneta promana insomma un’immagine univoca, che impone rispetto. I capelli sono raccolti a coda di cavallo sotto una fascia gialla. La tuta, scura, con i riflessi metallici e scintillanti che il sole calante sottolinea, è all’ultima moda, affusolata e aderente, come sono di gran voga le scarpette, anch’esse gialle, che mirano a generare un inopinato contrasto. Conciata così mi si dovrebbe scorgere fin da lontano, avrà pensato non senza un pizzico di civetteria, godendo a priori dell’impressione che avrebbe suscitato, e ovviamente è ciò che avviene, è rimarcata appunto da notevole distanza e agevola così la meticolosa preparazione e i progetti dell’ospite, per non parlare dei miei. L’andatura, peraltro, non è delle più sostenute; deve trovarsi in una fase della corsa (o marcia, o scarpinata, o arrancata, fa lo stesso) in cui ha deciso di rallentare, riprendendo a fatica il controllo della propria respirazione, se mai l’abbia perso per uno scatto o guizzo precedente, o un’imprevista salita.

Il momento è propizio, dunque, e l’ospite non se lo lascia sfuggire. Finalmente ha l’occasione di sottrarsi al confinamento coatto, alla noia di quelle giornate vuote, sopportate con certosina, inautentica pazienza. Attende subito dopo la curva, sul declivio, in una zona d’ombra. Avventarsi su di lei, estirpandosi repentino dal suo nascondiglio, serrarle la bocca prima con la mano, poi con un provvidenziale bavaglio, è azione che richiede appena pochi secondi di un tempo già congelato nell’aria serotina. Poco più a lungo durerà il resto dell’intrapresa, la rimozione di quanto può essere rimosso, la lacerazione di quel che lacerato dev’essere perché l’orribile atto sia compiuto. Penetra, l’ospite, dove non è desiderato, dove in altre circostanze non sarebbe tollerato e sul tragitto si frangerebbe contro ostacoli insormontabili. Penetra nel pelame scabro il suo membro risibile e serpentesco, mentre lui sbuffa, anzi stronfia, e addirittura impreca perché le unghie della maratoneta gli sottraggono minuscoli lacerti di carne. Ma soprattutto emana gocce, per me provvidenziali, di saliva, che della vittima invadono la bocca, il naso e insino il bel paio di cerulei occhi.

Il frangente che con tanta ansia aspettavo è giunto, non sarebbe da me farmi trovare impreparato. In qualità di generale dell’ancora invitto esercito nemico, aduso a sequele di trionfi e oceaniche lodi, esorto le truppe dei fedeli vassalli: andate, miei prodi acellulari, approfittate del momento, del silenzio, e soprattutto delle stille d’umidità che il corpo del nostro provvisorio ospite produce, dilagate metodici nelle membra della gentile maratoneta. Non c’è inibitore che possa fermarvi, cellula che possa opporsi. Scindetevi, moltiplicatevi, poi riassortitevi, mutate, fate quel che volete, ma conquistate alfine lei e questo mondo d’inferno.

Non mi biasimate. Non abbiamo, mi pare, noi patogeni agenti, altra scelta che questa.

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