A proposito di “Noi partigiani"
La Resistenza viva
Gad Lerner e Laura Gnocchi restituiscono la parola ai protagonisti della Resistenza raccogliendo diari e testimonianze dei protagonisti. Nel viene fuori la storia vera di una stagione straordinariamente vitale. Rimasta poi impelagata nella retorica della politica
In principio furono i nomi di battaglia: Diavolo, Bruna, Bingo, Jim, Robin, Pablo, Fringuello, Eros, Battagliero, Mariuccio, Olga, Furio, Anuska. Uno per uno battezzati così, per esorcizzare la paura, per lanciare il cuore oltre l’ostacolo, per far tremare il nemico o, più semplicemente, per qualche lettura esotica, per un ricordo infantile.
Sono i nostri partigiani: Noi partigiani, nello splendido volume curato da Gad Lerner e Laura Gnocchi, edito da Feltrinelli. In questo memoriale della Resistenza italiana i protagonisti si raccontano in prima persona, così che oggi li riscopriamo così giovani e così vivi – loro che sono tutti morti – come nostri fratelli minori.
Molti, allora, erano appena più che bambini. Come Mario Ghiglione, della terza brigata Garibaldi Liguria, che descrive così la sua iniziazione alla guerra con il moschetto rubato a una guardia fascista: «Possedevo già un nome di battaglia: Aria, anche se di anni ne avevo solo quindici». O come Dina Guazzone, che a nove anni fonda un suo personale partito antifascista: «La mia prima tesserata fu una bambina che abitava sul mio pianerottolo in via Botticelli a Milano. Feci le cose per bene. Le avevo dato perfino un foglietto di carta con una scritta a penna: partito antifascista». O come Gastone Malaguti, uno dei protagonisti della battaglia di Porta Lame: «A novembre del 1943, all’età di diciassette anni, entrai nella settima Gap. Era stato mio nonno a insegnarmi a sparare in campagna. Metteva una zucca su un bastone, e pam!».
Tutto, in questo coro, ruota attorno a una magica stagione, la primavera di bellezza della liberazione. Ha le cadenze della prosa di Beppe Fenoglio, la testimonianza di Gustavo Ottolenghi (Robin): «Dopo la neve, anche in Monferrato arrivò la primavera del 1945. Il 25 aprile, la liberazione, noi partigiani della divisione Monferrato siamo saliti sui camion e siamo stati tra i primi a entrare a Torino…». Pare di scorrere le prime pagine dei 23 giorni della città di Alba: «…e tutti, o quasi, portavano sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti. Lesse nomi romantici e formidabili, che andavano da Rolando a Dinamite. E con gli uomini sfilarono le partigiane…».
C’è tuttavia un prima, un mentre, e un dopo, in tutte queste testimonianze. C’è prima lo scorrere della vita quotidiana, la cronaca di famiglie borghesi o proletarie, interni popolari, lavori nei campi, aule universitarie, rovelli intellettuali, tradizioni libertarie. «Mia madre, che era più impetuosa di papà, Mussolini lo chiamava quel là, il capo del governo. Se poi il Duce ne faceva una grossa, diventava quel là che parla dal balcone…».
Il mentre, è poi la guerra per bande, lo scontro armato con tedeschi e fascisti. Guerra vera, sangue vero: «Massimo non lo vidi più. Morì nel primo combattimento, a Merna, colpito da una bomba nazista. Renzo invece sfuggì al massacro e si rifugiò con altri quattordici ragazzi in un paesino del Carso…».Nella guerra, di fronte al sangue dei compagni e dei nemici, c’è anche il tempo per piccole confessioni: «Non davo una grande importanza alla vita, a vent’anni ci si sente eterni».
E il dopo, come sarà il dopo? «Trovai tutto cambiato. Le ragazze ballavano con gli americani quei balli strani, passavano sotto le gambe e si facevano lanciare per aria. Noi eravamo abituati al walzer, al tango, e invece ho trovato il boogie-woogie, un tormento. Anche perché non riuscivo proprio a capirlo: l’unico senso del ballo era stringersi a una donna. Che senso aveva lanciarla per aria?».
Di fronte al romanzo straordinario di un popolo in armi, ci chiediamo oggi perché questa vicenda storica e umana non sia diventata senso comune, perché la Resistenza non si è trasformata in epopea nazionale e narrazione originaria della nostra Repubblica. Forse anche perché in tempo di pace la parola è stata tolta ai protagonisti e consegnata ai politici, forse perché la storia vera di carne e sangue è stata da subito macinata nella retorica, nelle inutili pompe dei riti e dei miti.
Troppo presto si è tolta la parola a Robin, a Diavolo, a Bruna, a Bingo, troppo presto la memoria si è impantanata in uno sterile dibattito su vinti e vincitori, su tesi contrapposte, su presunte caratteristiche nazionali, sul fascismo come parentesi storica, sulla giusta pietà per i vinti che diventa assoluzione e prescrizione di un sistema di orrori e nefandezze.
Il volume di Lerner e Gnocchi ripara oggi troppo tardi a un torto che pesa ancora sul nostro presente. I fatti, e le parole che descrivono i fatti: niente retorica, niente finzione, spesso nessun lieto fine. Così si confessa Germano Nicolini, il comandante Diavolo. «Ecco, io non piacevo alla Chiesa perché ero comunista, e non piacevo al mio partito, il Pci, perché ero cattolico. Ma a me interessava piacere ad altri…».