Daniela Matronola
A proposito di "Brama"

Brama e ossessione

Il nuovo libro di Ilaria Palomba è il diario di un'ossessione: quella di riempire i vuoti della vita. Ma, rovesciando la trama del romanzo, ci si imbatte in una critica durissima della società dell'accumulo e del successo a ogni costo

Brama di Ilaria Palomba (Giulio Perrone Editore 2020, Pagine 239, €16) è sotto molti aspetti un romanzo di frontiera. Ricordo quando un paio d’anni fa Ilaria me ne parlò – era nel vivo del lavoro, e parallelamente conduceva una serie di attività collaterali per così dire che a quanto vedo sono poi confluite nel libro: il corso di scrittura al centro diurno e un blog nel quale riversare storie al limite di dissipazione e disturbo. Tutti materiali che ritrovo ora qui nel fitto tessuto di questo romanzo-confessione, diario lucido di ossessioni e polarità rispetto al quale quei materiali sono una sorta di percorso affiancato di esplorazione ulteriore, del sé negli altri. Ricordo anche che Ilaria Palomba mi descriveva il lavoro sulla scrittura, la costruzione lucida di un monologo interiore come forma elettiva di un flusso di coscienza disturbata, inarrestabile e manipolatoria.

Come sempre quando leggo un libro di Ilaria Palomba sono stupefatta della conduzione regolatrice del dettato nel quale con cura e precisione meticolose riesce a sviluppare l’osso dell’analisi portando il linguaggio a un grado di essenzialità esemplare in cui peraltro, soprattutto in questo caso, la clinica, cioè anamnesi diagnosi e terapia con farmacopea relativa, raggiunge punti di chiarezza, e di intersezione con la valutazione psichiatrica e/o psicanalitica.

Detto in termini più espliciti, la confessione è resa da Bianca: apprendiamo, attraverso la ricostruzione spietata in una serie di flashbacks, di rapporti con i genitori e tra i genitori, e di una incompatibilità col padre psichiatra, amato e odiato (che ha cercato di curare Bianca, e anche questo ha comportato un’incompatibilità), e con una madre sempre assente (salvo quando la malattia ha preteso da lei accudimento e presenza). Bianca ha sviluppato una sorta di fame insaziabile e cioè un vuoto interiore, una incolmabile mancanza (come recita il titolo di una raccolta poetica di Ilaria Palomba). L’esistenza in effetti è per la protagonista, Bianca, una ricerca senza sosta di chi o cosa possa riempire così tanti buchi.

Non si pensi a una supremazia incontrastata del personaggio di Bianca sulla scena. È vero che il racconto scaturisce e ha sorgente solo in lei. Essenziale però è, alla conduzione della “vicenda”, il tennis (chiamiamolo così) giocato da Bianca col suo unico vero antagonista, Carlo Brama, psicanalista e filosofo, che potrebbe esserle padre visto che rispetto a lei trentenne è un cinquantenne, e agli occhi di Bianca in effetti è una sorta di mentore ambiguo, ed è il terzo o quarto amore importante, l’ultimo dei quali, prima di lui, non ha nome ma è semplicemente nominato come Narciso.

La trama è “flimsy”, come molti dicevano dei romanzi della Woolf: qui c’è una sorta di flusso di coscienza diretto alla Joyce o alla T. S. Eliot, da cui tuttavia assistiamo spauriti a una discesa in un gorgo di ossessione in cui abbiamo la sensazione d’essere sospinti e trascinati senza poterci sottrarre, però col fiero desiderio di non mollare la corsa. La sorpresa che ci aspetta a braccia aperte non può essere qui menzionata.

È invece importante trarre delle conseguenze da questo modo di raccontare e dagli oggetti e sviluppi di questo racconto, per collocarlo non solo letterariamente ma anche in termini esistenziali, emotivi, o di destino – ciò che attiene alla letteratura. Se, in groppa al capriccioso serpente della trama, agitato come il toro di un rodeo, restiamo in sella, riusciamo a ricostruire una visione del mondo, che riguarda la dura ambiguità dei rapporti di amore-affetto, la truce dipendenza che in essi rischiamo di sviluppare, il sempre verde rapporto, squilibrato e impari, servo-padrone, e la rete relazionale che lega uomini e donne, e le donne tra loro. Se sappiamo rovesciare la storia del romanzo come un guanto e guardarla da tutto un altro punto di vista, scopriamo che c’è nel libro una critica spietata della società, un’analisi a dir poco impietosa dell’incidenza, specie emotiva, nelle nostre vite, del mito della lettura della letteratura della scrittura e della cultura.

Si sostiene di fatto che all’astrazione e alla mitolatria del successo dobbiamo l’invasione nelle nostre vite di super-fetazioni pneumatiche che ci rendono disumani, e anche autolesionisti: cacciatori, quasi, di lesioni. Si ricorda al lettore che “la civiltà nasce come edificazione di confini rispetto alle pulsioni”, poi si sottolinea che “divorare” è il verbo più coniugato presso di noi. La brama è un desiderio invidioso, geloso, rabbioso, una fame atroce, un appetito da saziare col ragù.

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