Giulio Cattaneo a dieci anni dalla morte
Il gran toscano
Ricordo di un fine scrittore e critico letterario. Amico fraterno di Leone Piccioni, condivise con lui i maestri, gli amici e quarant'anni di lavoro in Rai. Sapiente autore di biografie (su Ferdinando Tartaglia e Federico II di Svevia), resta memorabile il suo ritratto di Carlo Emilio Gadda
In Italia la biografia non è mai stato un genere troppo praticato, al di là di un indiscusso maestro quale è oggi Pietro Citati; i grandi ritrattisti appartengono alla tradizione anglosassone. A quella cultura letteraria sembra ispirarsi uno dei tratti narrativi di Giulio Cattaneo, fine scrittore, critico letterario nato a Firenze nel 1925 e scomparso a Roma, città adottiva, il 2 settembre di dieci anni fa. Studente al liceo Galileo di via de’ Martelli, aveva avuto per compagno Leone Piccioni con il quale condivise la passione per la lettura e l’amore per la musica di Verdi. Un’amicizia proseguita nelle aule della facoltà di Lettere, sotto la guida di Giuseppe De Robertis che sarebbe rimasto per entrambi punto di riferimento culturale e morale.
Nel 1945 Piccioni si trasferiva a Roma per ragioni legate all’impegno politico del padre Attilio, e già l’anno dopo, prima della laurea con Ungaretti, veniva assunto alla Rai nella redazione del Giornale Radio. Fu Leone a prodigarsi per far chiamare l’amico di tante scorribande non solo letterarie nella redazione culturale dello stesso Giornale Radio. Cattaneo vi giunse nel 1950 per intraprendere una carriera quarantennale che affiancò a una costante attività critica, accompagnata dalla fruttuosa collaborazione a riviste come «Paragone» (del cui comitato di redazione entrò a far parte nel 1968) e «L’Approdo letterario», a quotidiani, quali «La Repubblica», a case editrici da Garzanti a Rizzoli a Newton & Compton ad Adelphi. La vita di Piccioni e quella di Cattaneo ripresero un confronto giornaliero, in realtà ininterrotto anche nei cinque anni di lontananza, come testimonierà il carteggio in corso di pubblicazione a cura di Emanuela Bufacchi.
Cattaneo con il suo carattere mite, arguto e curioso fece degli uffici un po’ scalcinati, ammobiliati alla peggio, visibilmente appena usciti dalla guerra di via Asiago, e poi di Botteghe Oscure, dove passavano scrittori e poeti, il backstage da illustrare con la sua penna impertinente quanto penetrante: da Antonio Baldini, fedele alla sua divisa di «beato fra le donne», a «Ungaretti che commentava rumorosamente i fatti del giorno e gli ultimi avvenimenti letterari con scoppi di collera che cessavano all’improvviso», a Giorgio Vigolo «con un’aria fra l’assorto e lo sprezzante che preparava l’edizione dei sonetti del Belli e per la radio curava una rubrica musicale». Nei primi anni Cinquanta ebbe anche un collega d’eccezione col quale condivise per almeno tre anni le stesse mura: Carlo Emilio Gadda. Da quella convivenza nasceva una biografia per detti memorabili che resta espressione della vena autenticamente umoristica di Cattaneo. Il gran lombardo, uscito per Garzanti nel 1973, descriveva nel disarmo privato, con un repertorio ricchissimo di frasi ed episodi, il sommo autore della Cognizione del dolore e di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Un volumetto che si sarebbe rivelato capace nei decenni successivi di avvicinare migliaia di studenti universitari a uno scrittore complesso come Gadda. (Nella foto Leone Piccioni e Giulio Cattaneo da giovani).
Se l’attività in Rai offriva a Cattaneo spunti narrativi, contatti e l’apertura del salotto letterario di Elena Croce in un bellissimo palazzo di piazza Santi Apostoli dove poteva incontrare storici e filosofi, critici letterari e d’arte, economisti e banchieri d’ogni paese, giovani promesse della narrativa, giornalisti cattolici o d’estrema sinistra, egli, negli anni, non dimenticò le proprie esperienze legate al periodo fiorentino successivo alla liberazione, e il ruolo che assunse la letteratura europea per sopravvivere a quei mesi di sbandamento. Alcuni suoi libri ne offrono testimonianza: L’uomo della novità (premio Viareggio 1968) che in una prosa asciutta documenta un segmento di vita di un giovane prete, poi scomunicato, Ferdinando Tartaglia, sostenitore nel 1944 dalle colline del Galluzzo di un radicale rinnovamento religioso, modello che alcuni giovani universitari avevano sostituito a De Robertis. Come ha osservato Geno Pampaloni questo «Non è un racconto di memoria, è un racconto di fatti, rilevati, a sbalzo, con la crudele nitidezza della cronaca: un piccolo autentico classico che va ad arricchire la secolare tradizione toscana». Fa da pendant il racconto Da inverno a inverno (Il Saggiatore 1968) incentrato sulle vicende del 1944 viste dall’autore che finito il liceo, con «qualche nozione letteraria e nessuna convinzione politica», si trova nel cortile di una caserma consegnato con altri diciottenni italiani a soldati tedeschi della Divisione Flak. L’ultimo frammento del racconto intitolato Licenza è rivelatorio dell’impegno di Cattaneo nel cercare un’espressione calata nell’epoca attuale: documentaria, limpida, prosciugata da inutili compiacimenti. Confessava che tra il 1946 e il ’47 aveva scritto alcuni capitoli «che avrebbero dovuto far parte di un’opera letteraria rimasta nel cassetto. Non fu mai pubblicata, per fortuna, con la sua prosa percorsa da un narcisismo intollerabile, ma gli argomenti trattati, uno per uno, sono stati ripresi tutti o quasi a distanza di vent’anni e anche di trenta nei miei pochi libri di andamento narrativo». A leggere tali parole non si può non pensare ai metodi compositivi del “gran lombardo”, al suo fare e disfare, alla tecnica del riuso, alla tenace ricerca di forme narrative nuove. E concludeva: «Nel ’68 Guido Piovene, in una intervista televisiva, parlò della stanchezza del romanzo esprimendo per suo conto la predilezione per il romanzo-saggio, per un romanzo che si potesse “leggere come un saggio”. Quelle parole mi chiarirono in modo esatto quello che stavo scrivendo proprio allora, compreso Da inverno a inverno. Certo il romanzo ha resistito ai momenti di crisi e di stanchezza, nella sua inesauribile vicenda di mutamenti, di ritorni e anche di rifacimenti letterari».
Ricordo Cattaneo negli ultimi dieci anni della sua vita. Pur afflitto dalla pesantezza del tempo, dai disturbi agli occhi, dalle notti insonni, manteneva il suo sguardo appuntito e acuto. Giurati nel Premio del Ceppo, presieduto da Piccioni, nei viaggi in macchina Roma-Pistoia-Roma Leone sedeva nel posto anteriore accanto al signor Walter Celli che guidava, dietro Giulio e io. Per Cattaneo quei brevi soggiorni pistoiesi dovevano essere un felice salto nel tempo passato, famelico di tutto ciò che fosse letterario: corsi universitari, novità editoriali, pettegolezzi dell’oggi che si mescolavano a quelli di trent’anni prima. Era animato da un’euforia fanciullesca e spaziava con un inalterato accento fiorentino da affondi su Verga – al quale nel 1968 aveva dedicato una biografia e il saggio Prosatori e critici dalla Scapigliatura al verismo per la Storia della letteratura italiana di Garzanti – a originali dissertazioni e confronti sui personaggi dei poemi epici e cavallereschi, una predilezione nata al liceo che aveva probabilmente indirizzato la scelta della tesi discussa con De Robertis sull’Aminta di Tasso.
Il rapporto con il suo Leone, ammirato e amato come un fratello maggiore (seppur coetanei), fu tenuto vivo fino agli ultimi mesi di vita dai campionati di calcio: Leone juventino riceveva da Giulio interista la rituale telefonata domenicale per i commenti.
La biblioteca e l’archivio di Cattaneo attendono ancora di essere riordinati, l’auspicio è che questo anniversario non passi invano.