Incontro con Valentina Noya
Ancestrale Sardegna
Ritratto di Fiorenzo Serra, antropologo e documentarista che, negli anni Sessanta del Novecento, contribuì a rivelare l'autenticità e la meraviglia di una cultura fino ad allora chiusa in se stessa: la Sardegna
La Sardegna è da sempre una terra dalla natura selvaggia e dalla cultura antica e complessa. Uno dei suoi massimi cantori è stato il regista Fiorenzo Serra, che ha raccontato, in chiave realistica e documentaristica, la storia, la cultura e le problematiche sociali sarde del dopoguerra. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta realizzò molti cortometraggi. Nel 1964 completò il suo lungometraggio L’ultimo pugno di terra, scritto in collaborazione con Giuseppe Dessì e Giuseppe Pisanu, con la supervisione di Cesare Zavattini, poi riadattato e presentato nel 1966 al Festival dei Popoli, dove ottenne il premio Agis. Nel 1968 assunse l’incarico di preside del neonato Istituto d’Arte di Nuoro e nel 1973 ad Alghero, dove istituì il corso di grafica.
Per conoscere meglio il suo lavoro Succedeoggi ha intervistato la nipote Valentina Noya, direttrice del festival LiberAzioni – l’arte dentro e fuori dal carcere e progettista per l’Associazione Museo Nazionale del Cinema a Torino. Valentina è anche consulente e facilitatrice internazionale al video partecipativo dopo una formazione intensiva sul tema a Oxford insieme a InsightShare e alla sua associazione informale Agave. Agency at Video Empowerment.
Com’era la Sardegna raccontata da tuo nonno Fiorenzo Serra nei suoi documentari?
A tratti ancestrale, appare di galassie lontana nel tempo. E pensare che i documentari più importanti di mio nonno sono della metà degli anni ’50. Era una Sardegna con un’altra cultura, con più culture, spesso frazionate e scioccamente antagoniste, ma ricca, in cui gli oggetti di uso quotidiano delle famiglie contadine erano nobilitati dal valore del tempo che le persone impiegavano per realizzarli e dalla grande maestria e conoscenza delle materie prime naturali con cui venivano fatti per durare ed essere tramandati. A me piace pensare che questa eredità permanga tutt’oggi nello spirito dei sardi, nel loro carattere particolare.
Quali sono i temi che più ha amato raccontare?
Mio nonno era figlio di un ingegnere che aveva fondato il primo liceo scientifico di Sassari per cui Fiorenzo e i suoi fratelli sono stati obbligati a studiare lì e al tempo, usciti dal liceo scientifico, ci si poteva iscrivere solo alle facoltà scientifiche. Mio nonno era molto più portato per le materie umanistiche e amante della letteratura, quindi per cavarsela scelse il meno peggio: Scienze naturali a Firenze.
Credo che questo corto circuito a livello di istruzione abbia generato l’antropologo: osservava l’uomo come un insetto, una pianta o qualsiasi altro animale, scrutava e catalogava le sue fasi e il ciclo di vita, l’habitat, gli usi e i costumi.
Il suo metodo rigoroso non era però freddo e distaccato. Era un uomo estremamente socievole, capace di inserirsi in qualsiasi contesto umano e documentarlo. Penso per esempio ai lavori sulle tradizioni della Barbagia, una terra e un popolo estremamente lontani dalle abitudini cittadine di un sardo della costa e noti per lo più in continente per le tradizioni dei sequestri e del feroce codice barbaricino.
Come disse una volta un regista sardo di cui purtroppo non ricordo il nome, mio nonno aveva l’ambizione di raccontare una terra, un popolo, nella sua interezza e complessità. Voleva raccontare un mondo in maniera rigorosa e aiutato probabilmente da dei confini netti e specifici credo ci sia riuscito.
Era una Sardegna antica che stava scomparendo?
Era una Sardegna precolombiana… A parte gli scherzi, esistevano e sono documentate nei documentari di mio nonno tradizioni oggi completamente scomparse o in via d’estinzione o (peggio) addomesticate o edulcorate dalla globalizzazione che hanno dei curiosi parallelismi con studi degli stessi anni di antropologi ad altre latitudini del mondo. Penso per esempio alle imbarcazioni da pesca del lago di Cabras, realizzate in giunco intrecciato, identiche alle piroghe tradizionali peruviane del lago Titicaca. O alle forme delle brocche in ceramica per trasportare l’acqua sul capo (spesso femminile) dei paesi della Sardegna: stessa foggia di quelli latinoamericani, oggi tristemente riprodotti in plastica! O alla borraccia scavata nella zucca e altri utensili, ma soprattutto alla meticolosa maestria degli artigiani tessili, ai riti lunghissimi per la cottura del pane carasau che doveva durare tutto il periodo della faticosa transumanza.
Mi racconti il suo lavoro che ti ha colpito di più?
Se L’Ultimo pugno di terra è considerato dalla critica il suo capolavoro, in quanto lavoro-compendio, quasi antologico che ha attraversato vicissitudini produttive estremamente impervie, venendo dapprima censurato dalla committenza – cosa che non gli ha comunque impedito di vincere nel ’66 il Festival dei Popoli – e poi riscoperto dopo la sua morte dalla stessa Regione Sardegna, io personalmente sono sempre stata estremamente affascinata dai documentari realizzati nel ’53 per l’Etfas (Ente per la trasformazione fondiaria e agraria in Sardegna), ossia Fame di pietre, Cingoli sulla terra, Attorno alla città morta, Assalto alla Boscaglia e Alba sulla Nurra.
Oltre a essere delle testimonianze della mutazione profonda del rapporto tra l’uomo e il suolo e le sue risorse, questi documentari hanno un linguaggio cinematografico estremamente simbolista e suggestivo e sono tutti in bianco e nero, a differenza dei precedenti e successivi lavori di mio nonno che erano quasi sempre a colori. La terra assume in un certo senso una prospettiva quasi soggettiva di essere violato, mentre l’uomo, a differenza degli altri documentari di mio nonno in cui è nobilitato dal suo fare artigiano, è qui all’ombra della macchina che distrugge e non entra in relazione.
Attorno alla città morta in un certo senso raccoglie quella poetica di desolazione, mostrando come Fertilia, cittadina fondata durante il Fascismo, confinante con la più nota Alghero, sia stata meta dei profughi istriani: un’umanità muta e deprivata, spogliata di tutto, in una cornice architettonica fredda e severa. Alcune scene potrebbero essere benissimo o forse sono state concepite in origine come semplici fotografie. Ecco, credo che in questo gruppo di documentari ci sia moltissimo del rigore compositivo primigenio che animava il cinema di mio nonno che prima di essere un regista era fotografo e montatore.
Tuo nonno si può definire uno dei pionieri dei documentari sugli studi antropologici, lavori che testimoniavano antiche usanze culturali che scomparivano?
Credo che tutti gli antropologi siano dei sensitivi nei loro obiettivi di ricerca: percepiscono come una premonizione, o forse hanno semplicemente una profonda sensibilità che si trasforma rapidamente in nostalgia per qualcosa che avvertono presto non ci sarà più. E allora hanno bisogno di documentare, per preservare dall’oblio. Credo che mio nonno abbia vissuto un momento storico antropologicamente fortunato, nel senso che in quel preciso periodo che corrispondeva all’apice della sua vita, l’Italia si preparava e attraversava il suo boom. E la Sardegna, rimasta quasi al Medioevo fino alla generazione precedente, si apprestava a fare un salto enorme, gigantesco che avrebbe mutato il suo volto e la sua identità; probabilmente per sempre.
Stai lavorando su un documentario su di lui?
In realtà mi sono chiesta a lungo – oramai sono oltre 4 anni che ho concepito questo progetto nella testa e concretamente lo sto sviluppando da due anni – se si trattasse di un documentario su mio nonno e con il patrimonio immateriale e familiare che mi ha lasciato o potesse essere un mio documentario. Ci è voluto molto tempo perché, nell’ordine, legittimassi a me stessa il potere di usare quel materiale a mio piacimento, trovare il mio piacimento, rendermi conto che quello che credevo il mio piacimento era solo un accondiscendere a un’eredità. E quindi eccomi qui: sono in quella fase in cui sto cercando di dare un senso per me stessa al lavoro che sto provando a fare con l’aiuto ancestrale di mio nonno. Ma devo essere sincera, non credo, quando questo documentario dovesse vedere la luce, che sarà proprio su di lui. Personalmente, nasce da esigenze più intime, legate ad alcune personali mancanze familiari, ma che esulano dalla sua figura.
I lettori che volessero approfondire le sue opere dove le potrebbero trovare?
Una biografia estremamente esaustiva si può trovare tra le pagine online del Fiorenzo Serra Film Festival.
Una bellissima pubblicazione, direi quasi un’opera omnia se si esclude L’Ultimo pugno di terra, è La mia terra è un’isola: cofanetto della casa editrice Illisso con 8 dvd + catalogo per cui mio nonno prima di morire i primi del 2000 curò un nuovo montaggio dei suoi documentari degli anni ’50. Mentre L’Ultimo pugno di terra (doppio dvd, con versione originale e censurata + libro) è edito da Il Maestrale.
Che eredità ti ha lasciato il lavoro di tuo nonno?
Credo che mio nonno mi abbia trasmesso geneticamente un grande amore per l’osservazione della natura umana, un amore che si traduce fondamentalmente in una grande curiosità. E la capacità intrinseca di non giudicare questa complessità, ma solo di rimirarla, talvolta adorarla (anche se questo mi capita sempre meno nel quotidiano, devo essere sincera perché l’essere umano è anche cattivo). A questo proposito però vorrei condividere una poesia del corpus rinvenuto dagli archivi catalogati e conservati da mio zio Antonio, una poesia della giovinezza di mio nonno, quando si trovava ancora in guerra:
Non ch’io rida in disprezzo. In m’è v’è il buono
saggio amor della vita. In questo mondo
d’altri fatti e pensieri ospite sono,
e la cheta ironia è la mia presenza.