Alla Galleria comunale di Roma
Fairey, ladro d’arte
Omaggio a Shepard Fairey, l'artista che ha creato l'immagine vincente di Obama alle presidenziali del 2008. Le sue opere, esposte accanto a quelle dell'arte italiana del Novecento mostrano la ricchezza di ispirazioni di un maestro della street art
La prima immagine è il poster che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo, creato nel 2008 per sostenere la storica campagna che portò Barak Obama alla Casa Bianca, primo uomo di colore a divenire presidente degli Stati Uniti. Una foto che inquadra con tre viraggi cromatici, gli stessi della bandiera americana, il suo viso meticcio, sigillato in fondo dallo slogan che gli consegnò la vittoria: Hope, sperare. Il bianco, che copre un terzo della faccia specchiandosi nel candore della camicia, a riassumerne la biografia di Obama e la rassicurante carriera politica da colletto bianco. E poi due chiazze di tinte diverse: il rosso dei repubblicani e il blu dei democratici mescolati come una promessa di pacificazione e imparzialità.
Quando Shepard Fairey inventò quella geniale trovata pubblicitaria aveva trentotto anni e da una dozzina cavalcava ormai da protagonista con riconoscimenti e quotazioni di mercato in costante ascesa la scena americana. Ora, a cinquant’anni appena compiuti, la Galleria comunale romana d’arte moderna di via Crispi gli rende omaggio consacrando questo ragazzone bianco della North Carolina diventato adulto come un maestro, con una mostra in cartellone fino al 12 novembre, introdotta da quell’icona e seguita da altri ventinove bozzetti, che ne riassumono l’intera carriera e la scelta di campo: la stricker art, immagini riprodotte in tutte le scale di grandezza, e ritoccate con vernici industriali, da incollare sui muri. E con un titolo che ne evidenzia la matrice ideale di denuncia: «Tre decadi di dissenso».
Altri musei di prima fila nel mondo gli hanno già consegnato con più dispiego di opere e spazi la stessa corona da star del contemporaneo, anche a rischio di relegare in sordina la cifra dissacrante di polemista e cantore per platee popolari.
Nessun altro probabilmente ha gratificato come questo piccolo, troppo poco considerato museo romano, le sue ambizioni di artista a tutto tondo votato all’impegno sociale, consentendogli di misurare alla pari il proprio talento con altri artisti del passato, anche estranei alla sua cultura visiva. E consentendo al visitatore di acquisire chiavi meno scontate per rileggere le caratteristiche di un linguaggio di sponda, costruito, nel solco delle teorie e della tradizione della pop art made in Usa, di citazioni, contaminazioni e rimandi al già visto, alla tendenze di moda e all’universo del consumo di massa.
Un immaginario di forte impatto comunicativo ma di relativa profondità, che qui si ricarica di altri echi imprevedibili e imprevisti probabilmente dallo stesso autore. Già, perché a rendere unica questa mostra è il colpo d’ala dei curatori italiani, Claudio Crescentini e Federica Pirani che, variando un modulo già sperimentato con successo, hanno invitato lo stesso Fairey ad affiancarli scegliendo in piena libertà nelle collezioni del museo altrettante opere da accostare ai 30 bozzetti che presentava.
Ne nasce un copione a due direzioni parallele. La prima segue in ordine cronologico, sala per sala, l’evolversi e l’accavallarsi dei temi di denuncia con i quali Fairey si è cimentato e degli influssi che lo hanno ispirato. Partendo dalla serie di lavori con cui si è fatto largo, dedicati alla figura di un campione nero di wrestlig, che all’epoca era osannato dai tifosi per la sua ostentata cattiveria sul ring e lui scelse volutamente a metafora della voce di ribellione che proveniva dai ghetti dell’emarginazione e minacciava l’ordine e la ipocrisia dei poteri dominanti. La sua maschera, dai tratti molto stilizzati, incisa su un manifesto spuntò all’improvviso a tappezzare i muri di New York, come una profezia d’apocalisse.
Sotto, una spaesante scritta dal messaggio capovolto, a evocare il muro di conformismo e rassegnazione che sbarrava il passo a ogni tentativo di cambiamento, eteronimo che da allora gli restò incollato come nome d’arte: Obey, obbedire. Un alter ego pervasivo che poi ha continuato ad effigiare in altre varianti con accostamenti e interventi da grafico addestrato a recuperare e rubare spunti e messaggi collaudati dai movimenti e dai raduni di massa. Ora adornandolo con una capigliatura alla Jimy Hendrix, ora raffigurandolo col pugno alzato come un vecchio leader del Black Power. Ora arricchendo la sagoma del Gigante Obey con segni e rifrazioni geometriche, messi in circolo da varie correnti artistiche ormai al tramonto, come la optical art. Debito che lui stesso confessa, scegliendo tra i quadri della Galleria da affiancare come contrappunto al suo bozzetto un autoritratto del 2004 di Francesco Guerrieri, guru italiano dell’optical, a lui prima sconosciuto: il vuoto di un profilo bianco incorniciato da due quinte di fasce multicolori.
Poco importa se l’opera in cui qui specchia le sue soluzioni grafiche, opera che ha ripescato a sorpresa in un catalogo della galleria, raggiunge sintesi di ben più ricca intensità e non punta come lui a semplificare il messaggio, tarato per la moltiplicazione, dosato per il pubblico in transito di una metropoli.
A conti fatti questa esperienza romana probabilmente lo ripaga più di quanto non appaia dai collegamenti che lui stesso ha operato, perché aggiunge echi di inedita autorevolezza al suo repertorio iconografico e al suo mestiere di ladro d’arte e don chisciotte in eterna lotta col potere costituito. E chissà che non torni buono per il futuro ad ampliare le sue fonti d’ispirazione aver ritrovato inattesa assonanza tra l’arancione gridato di una freccia aggiunta alle sue consuete icone e il colore puro, l’assoluta nitidezza di segno di una maestra dell’astrazione come Carla Accardi. Oppure di aver ritrovato o scoperto per la prima volta una possibile somiglianza tra l’ossessivo ripetersi nei suoi bozzetti di quello stilizzato colpo d’occhio a pupille sgranate con cui incalza a reagire i suoi spettatori e lo sguardo immobile, ferreo e indecifrabile del Cardinale di Scipione, capolavoro di uno dei maestri della scuola romana Anni Trenta: la denuncia di un potere che ti spia e ti raggiunge ovunque tu ti nasconda non nasce da un’analoga intenzione di monito e allarme, dal disvelamento di un’analoga minaccia?
Divagazioni, sconfinamenti, a volte sicuramente arbitrari, che garantiscono a noi visitatori di misurare il valore e lo spessore di questo portabandiera dell’arte di strada, inquadrarne con più consapevolezza dei suoi confini il campo d’azione. Ma che non fanno smarrire il compito di documentazione che, comunque, questa mostra personale si prefigge. Perché poi il compito principale resta affidato alle opere-manifesto di Fairey. E da quest’angolazione il repertorio diretto di rimandi e citazioni appare molto più ristretto. La bussola più autorevole e seguita è quella delle opere grafiche degli artisti che hanno scandito i primi anni della rivoluzione russa, i fotomontaggi di Rodchenko, l’uso dinamico delle scritte, l’invito di Majakowsky di usare l’arte non come uno specchio, ma come un martello.
Fairey va a scuola dai suprematismi, ne prende in prestito taglio delle inquadrature e design, ma poi rende più marcati i suoi segni, usa come veicolo altri simboli. Come la rosa che appare in molti manifesti, celebre quello ispirato alla cartellonistica ai tempi della rivoluzione culturale in cui la corolla del fiore sigilla la canna dei mitra sollevati a gridare la forza della rivoluzione. Oppure rispunta all’estremità di un manganello come incitamento alla rivincita contro gli abusi della polizia americana, che lui stesso ha subito. O come la bomba a mano, o altri ordigni, che inappuntabili campioni dell’ipocrisia borghese esibiscono sul palmo delle mani come l’offerta di un dono.
Poi negli ultimi anni il suo campionario di riferimento scivola a saccheggiare il gusto e i modelli della cultura new age e dell’immaginario yoga. A ricordarci che l’autore, come tanti altri intellettuali del suo paese, non ha nulla in comune con la rivoluzione comunista e il socialismo, è piuttosto un ribelle anarchico, in lotta contro il sistema. E contro l’oppressione di ogni pregiudizio ideologico. Per restituire a ogni individuo la felicità, parola assai cara agli americani, il piacere della propria libertà sempre in bilico. Il campo di battaglia abbraccia l’ecologia, il conflitto irrisolto dell’emancipazione femminile, delle discriminazioni religiose. Lo stile sfiora la morbida e barocca piacevolezza del liberty.
A impreziosire questa intrigante rivisitazione di uno dei tanti versanti dell’arte di strada, il museo di via Crispi offre anche una seconda mostra, che chiama alla ribalta un duo di artisti italiani ormai di risonanza internazionale: Stan e Lex. Un modo del tutto diverso da quello gridato e sopra le righe di Fairey, anche se una tecnica quasi simile, quella dello stencil.
Forme impresse su carta e poi appese al muro, a scontare l’usura del tempo. Prima tappezzavano le pareti e le facciate urbane di facce anonime, tratteggiate di pixel in bianco e nero, che ti interrogavano dall’alto come fantasmi. Ora si sono riconvertiti all’astrazione. E dipingono mappe o paesaggi che emergono da una trama di segni paralleli, come regni di utopie rimosse da riattraversare. Tesori da salvare e recuperare. Rinascita hanno ribattezzato l’ultima istallazione. Una carrellata di carte allestita sotto i portici e nel cortile dell’ammezzato. Anche qui in dialogo con opere della collezione, un campionario di bronzi e terrecotte, dagli Anni Trenta ai Cinquanta. Un raffronto di visioni che spalanca le porte dell’anima.