Danilo Maestosi
Una mostra che sta girando l'Italia

Fotografare l’invisibile

Le fotografie che hanno vinto l'edizione 2020 del prestigioso World Press Photo esprimono una tendenza molto importante: quella di usare l'immagine - senza manipolarla - come uno strumento per spazzare l'oblio dalla realtà

Si è appena chiusa al PalaExpo di Roma la mostra che portava in passerella le foto premiate dalla fondazione World Press photo per il 2020. Una delle tante rassegne di qualità sabotate e scivolate via senza troppo risalto per le restrizioni e i rinvii imposti dalla pandemia. Ha senso parlarne ora a sipario calato? Sicuramente sì. Perché è una mostra itinerante che farà, virus permettendo, altre tappe in Italia e tra breve arriverà a Milano. Perché le immagini sono pubblicate e facilmente recuperabili in Rete. Perché si tratta di un concorso di grande risonanza e prestigio: un’ottantina di fotografie selezionate su oltre settantamila scatti realizzati l’anno scorso da 4282 professionisti di 125 paesi. Una partecipazione e un verdetto equiparabili a quelli di un premio Oscar.

Ma soprattutto perché si tratta di immagini che anche a riflettori spenti fanno riflettere e discutere, ci obbligano a interrogarci e misurare il modo con cui osserviamo il mondo e ne serbiamo memoria, il rapporto che stabiliamo con le informazioni visive che ci raggiungono, ci investono e ci mettono alla prova.

Foto di Yasuyoshi Chiba / AFP

Un test intrigante è già nell’assegnazione dei premi. A partire dal primo, che sigilla la foto dell’anno, firmata da un reporter giapponese, Yasuyoshi Cliba, dell’agenzia France Presse (qui sopra). È la ripresa notturna di una manifestazione. Le luci dei telefonini che squarciano il buio, si riflettono sulle teste dei dimostranti. Inquadrano in primo piano un giovane di colore, la mano sul cuore, la bocca spalancata a declamare, cantare come uno slogan una poesia, che gli altri, neri come lui, ripetono in coro. La scena è una piazza di Khartum, la capitale del Sudan. La data, il 19 giugno dell’anno scorso. In questa foto è condensato il racconto di una protesta popolare che ha segnato la defenestrazione del dittatore Omar al-Bashir che da trent’anni governava e opprimeva il paese. Poi un golpe militare, i soldati che sparano sulla folla, cadaveri e sangue, la condanna internazionale, infine dopo mesi di trattative l’accordo per consegnare il governo una maggioranza civile.

Confesso, sono un giornalista, cerco di informarmi, ma ho di quegli eventi un ricordo confuso e impreciso, che non include quella foto: così toccante, eppure mi era sfuggita. La globalizzazione di cui ci riempiamo la bocca è un processo universale ma ancora incompiuto. Le notizie e le immagini non circolano e non sono registrate allo stesso modo ovunque, invisibili barriere di geografia, storia e abitudini restringono spesso la portata e la solidarietà del nostro sguardo. E poi c’è la tendenza a rimuovere, confinare nei deserti dell’estraneità i colpi bassi delle emozioni e dell’indignazione che ci raggiungono da queste lontananze.

Foto di Daniele Volpe

Ce lo ricorda e ce lo rinfaccia un premiato reportage fotografico, realizzato da un italiano, Daniele Volpe (nella foto sopra), che arriva dal Guatemala e riassume in una decina di immagini la storia di un eccidio impunito che risale a più di un ventennio fa: lo sterminio di una popolazione Maya, gli Ixil, negli anni bui della guerra civile di cui sono riaffiorate atroci testimonianze quando furono scoperti e dissotterrati i cadaveri degli indios giustiziati poi gettati e nascosti nelle fosse comuni. Un’altra prova della brutale banalità del male che sarebbe rimasta archiviata negli scaffali dell’oblio – o che alcuni di noi hanno ricacciato in quella nebbia della conoscenza e della memoria – se le sequenze di questo servizio fotografico, gli oggetti, i giocattoli di bambini ritrovati nelle tombe comuni, la processione e i volti dei parenti che ancora invocano invano giustizia, non fossero tornate a colpirci allo stomaco. A rioccupare l’oggi che viviamo. Ma fino a quando? E per spingerci dove?

La risposta è anche affidata alla capacità di seduzione di queste forme di giornalismo visivo. Sguardi che interrogano, prolungano la nostra capacità di guardare lungo un crinale, spesso scivoloso, in cui etica ed estetica si fondono. Sì, perché queste notizie, questi gridi d’allarme, per sprigionare racconto devono poi sembrarci uniche e «belle». E qui entra in gioco il nostro gusto, la nostra libertà e la nostra sensibilità di spettatori qualunque. Perché in questo trapasso di sguardi e funzioni dobbiamo scendere in campo anche noi, assegnare anche noi i nostri premi.

Foto di Mulugeta Ayene, Associated Press

Non mi nascondo. Il mio attestato è andato ad altre immagini, relegate in altre classifiche minori. Una su tutte. È una foto scattata in Etiopia nel campo dove si schiantò subito dopo il decollo un Boeing munito di un sistema automatico difettoso che ingannava i piloti: 157 persone morte e smembrate dall’esplosione, impossibile dare nomi a quei corpi, ai parenti fu consegnato per la sepoltura solo un sacchetto di terra con qualche irriconoscibile resto (nella foto sopra). Il dolore racchiuso in grumo di terra. Tra i tanti istanti di quella tragedia l’obiettivo di Malageta Ayene, inviato dall’Associated, ha catturato questo: una madre che ha perso la figlia, abbracciata da un’altra donna in lutto, abito nero, velo nero sul capo, le mani contratte che si aprono a dischiudere una manciata di polvere scura che le copre gli occhi e si prolunga in alto come se uno sciame di insetti le scaturisse dal cervello e lo sbriciolasse.

L’immediatezza della sofferenza che si fa eternità e la smentisce. Poi la bravura di essere lì ad intercettare e isolare quel gesto. Rendere visibile l’invisibile.

Senza trucchi. Come quello di un evidente ritocco da tecnologia digitale che esalta e sconfessa la drammatica sequenza di un incendio in California, firmata da Noah Berger (nella foto sotto): lingue di fuoco che lambiscono i bordi di una laguna, peccato che ad accentuarne l’effetto dello sfondo cupo d’acqua e cielo sia un contrasto fin troppo marcato ritagliato e ridipinto in postproduzione.

Foto di Noah Berger

Certo, come ogni arte anche quella della fotografia ruba forme ricorrendo ad artifici. È la sfocatura di quella luce da interno così bianca e neutra a incoronare nella sezione Storie d’attualità la foto che documenta il dietro le quinte di una fiera mercato di armi che si tiene ogni anno ad Abu Dhabi: la placida, agghiacciante routine di quell’odioso traffico restituita dalla sagoma di un impiegato in giacca e cravatta che ripone in armadietto la sua mercanzia, un fucile mitragliatore a doppia canna. Ma guai se l’artificio scivola nel compiacimento, diventa una sottolineatura fastidiosa. Una prigione patinata. È un vizio che torna ricorrente in molti servizi inclusi in esposizione: il reportage di un lago che sta scomparendo, le sequenze giocose di figure di bambine che vengono indottrinate fino alla rinuncia di sé in alcune scuole coraniche della Turchia.

Altre volte – è vizio ancora più diffuso – la ricerca della «bellezza» affoga nell’ansia di aggiungere dettagli, imbottire, rendere ammiccante l’inquadratura. Forse non è un caso che a soffrirne in questa antologia siano soprattutto i lavori concepiti per ravvivare l’allarme e la mobilitazione sul saccheggio, gli scempi, i pericoli che minacciano la natura, le torture, gli atti di crudeltà, voracità e insensato addomesticamento sugli animali. Più che ad aprire, l’enfasi e la sovrabbondanza ammiccante di queste immagini, sembrano spingerci a distogliere lo sguardo per non lasciare annacquare, intorbidare il messaggio. Come in quella foto, catalogata insensatamente nella sezione ecologica. Un muro di filo spinato antimigrazione nel deserto del Messico. Davanti un uccellino che zampetta perplesso nella polvere. È una razza di cui queste barriere minacciano la sopravvivenza: la didascalia si limita a sottolineare questa motivazione, un insulto alla pietà e alla ragione.

Forse allora meglio chiudere gli occhi. Imparare a guardar fuori, guardandoci dentro. È il poetico invito di uno dei fotografi in gara, appena un terzo posto, il lituano Tadas Kazakevicius (nella foto accanto al titolo): per raccontare la struggente bellezza di un tratto di dune e foreste del suo paese a rischio d’estinzione alterna scarni scorci di paesaggi ai ritratti di personaggi schierati a difesa del luogo, che ha convinto a posare ad occhi serrati.

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