Incontro con il critico Vittorio Urbani
Fare arte ad Amman
«La Giordania sta tra Iraq, Iran, Israele, cioè in un mondo instabile. Ma l’instabilità, che da un punto di vista geopolitico è un problema, diventa invece spesso una condizione fertile per gli artisti»: alla scoperta della nuova creatività nel Medio Oriente
Negli ultimi anni l’interesse per l’arte contemporanea mediorientale è cresciuto molto. Abbiamo parlato con Vittorio Urbani, curatore di arte contemporanea, per conoscere lo stato dell’arte in Giordania e in Libano. Vittorio Urbani è un curatore indipendente con una profonda conoscenza dell’arte mediorientale, ha vissuto per anni a Venezia e vive da pochi mesi a Napoli. Ha organizzato mostre di arte contemporanea e curato libri e cataloghi d’arte. Dal 1993 è direttore dell’associazione culturale non profit “Nuova Icona – associazione culturale per le arti” con sede a Venezia.
Com’è la scena dell’arte contemporanea in Giordania?
Parlare della Giordania vuol dire parlare di un luogo poco visitato dalle folle dell’arte contemporanea, ma in realtà centrale a tante vie e tanti passaggi. La Giordania potrebbe essere paragonata alla Svizzera degli anni Quaranta, quando nel mezzo dell’Europa devastata dai totalitarismi, era il rifugio di tanti intellettuali, di ebrei e di persone scomode.
Il mio amore per il paese nacque grazie a una mostra, di una decina di anni fa, di Emily Jacir, una delle più importanti artiste palestinesi. Oggi vive tra New York e Roma e venne invitata dalla Fondazione Khalid Shoman a fare una mostra ad Amman. Un’altra artista che amo molto e che ha collaborato con la fondazione, è Mona Hatoum, che oggi risiede a Londra. Lavorò con un collettivo di donne chiamato Al Amir Woman Cooperative Society. Per quel progetto ha creato un suo lavoro artistico che si chiama Still Life, un grazioso tavolo di legno su cui si posano una ventina di oggetti in ceramica, sembrano dei vasetti, hanno dei colori allegri, ma in realtà sono riproduzioni di bombe a mano (nella foto accanto al titolo). Questa è una riflessione semplice e divertente su un tema classico di tutta l’arte mediorientale, il rapporto tra bellezza e violenza. Tra bellezza, morte e sopraffazione. Con l’ironia del “fatto a mano”, del lavoro delle donne. Tutto questo è complicato, ma sarebbe più corretto dire complesso. Sta qui la chiave per cui il Medio Oriente o lo ami o ne fuggi a gambe levate. Un lavoro ingannevolmente semplice e altrettanto ilare, presente a quella mostra, creato sempre da Mona Hatoum, era formato da un pezzo di carta, ripiegato su se stesso più volte e poi tagliato nello stesso modo in cui si faceva da bambini, che una volta aperto forma una specie di pizzo. Solo che le tovagliette di pizzo di Mona Hatoum mostrano degli allegri soldatini che si sparano l’un l’altro.
Quindi il tuo amore per la Giordania parte da questa mostra?
Mi ha incuriosito perché era una bella mostra, con un catalogo di standard internazionale, che avrebbe benissimo potuto essere fatta a Londra o a New York, ma che avveniva nella piccola e polverosa Amman. Città interessante, perché è un crocevia, un rifugio, un luogo in cui le carte si mischiano e quindi possono nascere nuove interpretazioni e tante iniziative. Mi soffermo sul concetto di “nuovo” perché il pensiero è una combinazione e interpretazione di dati già esistenti, a fine di creare prospettive nuove. Il Pensiero è quindi “condannato” a essere sempre Nuovo.
Sempre ad Amman un’altra situazione interessante è la Jasmin House, un luogo di esposizione, incontri, ma anche un ristorante gestito da giovani, alcuni provenienti da percorsi internazionali.
Un’altra realtà che ho trovato interessante è il collettivo, prevalentemente formato da donne, che si chiama Makan. Hanno uno spazio artistico in una casa nel centro della capitale giordana. Tra le mostre e i cataloghi che hanno prodotto, io amo molto un progetto che si chiama The “Utopian Airport Lounge”, a cui hanno lavorato vari artisti in residenza nella Makan House. La curatrice Giuliana Irene Smith, paragonava Amman a uno spazio provvisorio, intermedio, un non spazio, com’è la hall di un aeroporto in cui la gente passa, più che fermarsi. In questo senso Amman è un luogo interessante per l’arte contemporanea, che è per antonomasia metaforicamente un luogo poco stabile e dove i valori generalmente dati per accettati sono in perpetua ricerca di validazione.
Amman sembra come una rotatoria di quelle che si costruiscono nelle periferie, con una grande aiuola centrale molto bene illuminata, cartelli direzionali tutt’intorno, puoi prendere la direzione che vuoi o ruotarci intorno indefinitamente. In realtà sei nel mezzo del nulla, mi hanno sempre affascinato quei cartelli a certi svincoli che indicano “tutte le direzioni”, perché mi sono sempre chiesto che senso avessero.
Mi racconti la storia della Fondazione Khalid Shoman?
In questa realtà, non certo semplice, la Fondazione Khalid Shoman è l’istituzione più stabile, perché la famiglia fondatrice era una ricca famiglia palestinese, proprietaria di vasti e floridi aranceti nella parte meridionale di Israele, ridotti a deserto da successivi raid israeliani con il pretesto della sicurezza militare e del controllo del confinante territorio di Gaza. Nonostante il conservato agio, questa famiglia come mille altre ha vissuto e vive sulla sua pelle la condizione dell’esilio.
Il capo famiglia Khalid e sua moglie, oggi vedova Suha Shoman, comperarono negli anni passati una serie di case antiche e anni Venti e Trenta, prima che venissero distrutte per costruire anonimi condomini di cemento che caratterizzano l’aspetto della moderna Amman. Le hanno trasformate in un bellissimo centro di arte contemporanea. Uno di questi spazi presenta addirittura rimanenze di un’antica chiesa bizantina dedicata a San Giorgio e sotto questa un tempio, probabilmente dedicato a Ercole. Entrambe figure legate alla forza, che si sono sovrapposte nello stesso luogo. Alcuni edifici ospitano la collezione permanente di arte contemporanea, altri le mostre temporanee e altri ancora una fornita biblioteca con sala di lettura. Ultimamente è stato aggiunto al complesso, riunito da bellissimi giardini, anche un bell’edificio dove vengono ospitati gli artisti per le residenze internazionali. Tutto il complesso si chiama Darat al Funun-Khalid Shoman Foundation. La qualità dei progetti è molto alta e soprattutto Amman non è come l’airport lounge che abbiamo citato più sopra, dove si passa soltanto, ma è anche un luogo di incontro e di lavoro comune molto interessante, dove possono nascere tante iniziative.
Ci sono altre artisti che hanno operato in Giordania che vuoi segnalare?
Mi piace anche ricordare un’altra artista, che non è giordana, ma che morì ad Amman ed era turca, Farelnissa Zeid. Una grande artista, vidi due anni fa a Berlino una sua personale molto bella nello spazio espositivo della Deutsche Bank in Unter den Linden, già sede della Guggenheim Berlin. Sposò un principe giordano e venne con lui ad Amman e aprì in città un’accademia privata di pittura che fu frequentata da donne. Erano certamente persone di ceto elevato, perché avevano accesso all’educazione e le famiglie pagavano un’accademia privata, ma fu comunque un progetto che promosse l’emancipazione femminile, visto gli standard dei paesi arabi di quegli anni. Nella sua scuola studiò pure una giovane ragazza palestinese, Suha Shoman, che divenne più avanti la moglie di Khalid Shoman il fondatore della Fondazione Shoman di arte contemporanea che abbiamo citato. Suha Shoman nel suo lavoro di artista riflette sulle sorti del popolo palestinese. L’aranceto della sua famiglia era vicino a Gaza e crebbe a tal punto da diventare una tenuta di mezzo milione di metri quadri, ma a partire dal 2002 l’esercito israeliano tagliò tutti gli aranci con la scusa di dover controllare meglio il territorio di Gaza. Gli aranci non sono piante che fruttificano appena ripiantati, richiedono una lunga cura per diventare produttivi. Distruggere un aranceto significa anche distruggere il “tempo”, almeno quello delle generazioni che quella terra hanno lavorato con orgoglio e amore. Suha Shoman non può entrare in Israele, in quanto esule palestinese, ma come artista ha realizzato un’opera video con la storia della sua terra. Grazie al suo fattore e a un parente che ancora vivono lì, ogni anno ha registrato le diverse azioni con cui l’esercito israeliano ha nel tempo devastato e distrutto l’azienda agricola. Alterna le foto dello stato di adesso, con vecchie immagini di quando la terra era ridente e irrigata e produceva aranci e clementine. Riflettendo in modo dolente e ironico su come Israele, che si vanta di trasformare il deserto in giardino, nel caso di queste terre abbia fatto esattamente il contrario.
Nadine Gordimer, il premio Nobel contro l’apartheid, in alcune sue opere fondamentali, faceva intendere che per non intrappolare la propria arte nel proprio trauma e nella propria battaglia politica, bisognava allontanarsi da essi, per poi tornarvi in modo più sottile, ma forse anche più profondo. Che ne pensi?
Sicuramente l’arte non deve trasformarsi in un semplice pianto. Anche se esiste sicuramente un dolore e in questo caso anche un enorme danno patrimoniale. Uno dei modi di rispondere è sicuramente l’ironia, che abbassa il livello della polemica e ti fa fare un sorriso, anche se amaro, forse sardonico.
Mi viene in mente un’importante mostra di artisti libanesi fatta in Giordania, intitolata “Art Now in Lebanon”, dove Walid Raad, ha creato un’opera intitolata “I only wish I could weep”, “Mi piacerebbe almeno poter piangere”, in cui sosteneva di aver ricevuto da un misterioso Operatore n. 17, un militare destinato al controllo, via videoregistrazione, di quello che accade sul tratto della corniche, il bellissimo lungomare, di Beirut, accesso al materiale che filmava. L’incarico del militare ovviamente prevedeva la sorveglianza delle attività sulla strada, ma per qualche ragione questo operatore si distraeva e invece di riprendere la folla o quello che succedeva, ogni giorno filmava il tramonto. In questo modo il militare tradiva, sia pure per pochi momenti, l’incarico assegnatogli e creava una “falla” nella ossessiva sorveglianza, in cui qualcosa di non desiderabile avrebbe potuto succedere. Alla fine Walid Raad monta tutti questi splendidi tramonti insieme. L’ironia sta nel fatto che anche chi è al servizio del potere e deve controllare, ogni tanto può essere distratto dalla bellezza. Chissà se esisterà veramente l’Operatore n°17.
Altri artisti?
Un altro caso di arte che utilizza l’ironia, è quello della palestinese, Emily Jacir, che ho incontrato a Istanbul per la prima volta e poi ho rivisto anche in Giordania. Jacir ha fatto presso la galleria allora da me diretta a Venezia, la sua prima personale in Italia, dal titolo “Where we come from”. Jacir non è propriamente un’esule, perché lei riesce a entrare in Israele perché ha anche un passaporto statunitense. Con lei ho anche cercato di fare un progetto a Venezia che si intitolava “stazione”. Jacir ideò per le stazioni della Linea 1 dei vaporetti, la più utilizzata a Venezia, iscrizioni in arabo con i nomi delle varie fermate. Un’idea semplice e brillante. Il progetto andava avanti bene ed era destinato a diventare una mostra collaterale alla Biennale di Venezia. Abbiamo avuto perfino il sostegno della compagnia dei traghetti che si era offerta di pagare le scritte in arabo da mettere realmente sulle pensiline delle stazioni dei traghetti. Avevamo anche il sostegno dell’allora assessora alla cultura. Poi alla fine tutto si bloccò per il no energico e last minute del sindaco Massimo Cacciari, forse perché qualunque cosa fatta da una palestinese, anche la più innocua come questa, è destinata ad impigliarsi nelle polemiche legate alla questione israelo-palestinese. Fu un vero peccato, anche perché il progetto rifletteva e giocava primariamente con il plurilinguismo che a Venezia si trova anche nel negozio più semplice o nel pub dai menù in quattro o sei lingue, semplicemente per attrarre i turisti.
Tornando alla Giordania, cosa la differenzia da altri luoghi dell’arte contemporanea?
La Giordania è immersa in un contesto che definirei “da strapparsi i capelli”. Basti pensare che sta tra Iraq, Iran, Israele, cioè in un mondo instabile. Ma l’instabilità, che da un punto di vista geopolitico è un problema, diventa invece spesso una condizione fertile, di rimescolamento di nuove idee, per l’arte contemporanea e il mondo della cultura. Una condizione che molti centri affermati, per esempio quelli dell’Occidente, semplicemente non hanno.
Spesso si dice che le prime generazioni di esuli non hanno le parole per descrivere i loro sentimenti e spesso stanno in silenzio, mentre le seconde e le terze cercano di ritrovare le radici. Che ne pensi?
Le generazioni più vecchie di artisti palestinesi, che io non ho frequentato, spesso creavano opere astratte, che nascondevano i contenuti, oppure creavano opere figurative, in una difficile via tra il realismo socialista e l’espressionismo. Quest’arte è per me meno interessante, perché come artisti dell’esilio, vissuti in capitali internazionali sono forse meno legati alla loro società di provenienza se non come fatto di nostalgia. Ma conservo rispetto per questi artisti che hanno comunque cercato strade espressive. Invece, le seconde e terze generazioni oltre l’ironia o ad atteggiamenti di protesta, dicono i fatti in modo quasi piatto, così come sono, senza nasconderli dietro a opere metaforiche. Non c’è in loro la necessità ossessiva, che se un’opera non ha anche un significato metaforico, non sia arte. La poesia, e la capacità di rappresentazione del reale, si raggiungono attraverso altri mezzi.
Mi fai un esempio?
Passando dalla Giordania al Libano, Rabih Mrouè, un artista libanese, che io considero uno degli uomini più intelligenti che abbia mai incontrato, fece un video in cui ri-recitava il tipico filmino che un terrorista suicida usa fare prima di farsi saltare per aria, nel quale saluta i familiari e spiega le ragioni della sua lotta. Addirittura ha chiesto il permesso ai genitori di un vero terrorista suicida di rappresentare proprio il caso di loro figlio. Ne esce un lavoro durissimo e senza alcun filtro, a tratti fastidioso, perché davvero crudo. Voleva rappresentare l’impossibilità di un gesto così inimmaginabile, la trasformazione di un “bravo ragazzo”. Si vedono le foto di un vero nerd dai pesanti occhiali, vestito all’occidentale, che diventa un terrorista. Mi sono sempre chiesto con quale coraggio Mrouè possa essere andato a parlare con quei genitori e come questi non lo abbiano fatto uscire dalla finestra. È anche probabilmente una riflessione su come Beirut assorba tutto, uno può fare qualunque cosa, ma tanto la vita va avanti comunque. A Beirut si vive, si mangia, si costruiscono palazzi metaforicamente su un precipizio. Come mi dice sempre un amico libanese che ha investito in un’importante galleria a Beirut, i libanesi hanno sempre la valigia sotto il letto, per poter scappare se serve. Questa valigia credo non sia affatto metaforica.
Sia il Libano che la Giordania sono quindi luoghi in cui spesso si transita?
Tanto Amman è un luogo di transito quanto in Libano si vive in un mondo in cui si costruisce sul baratro e si ha sempre la valigia sotto il letto, in caso si debba scappare dal paese. In entrambi i casi si tratta sempre di lezioni sull’instabilità dell’essere umano e di come in fondo l’esistenza sia sempre un viaggio, un passaggio instabile su questa terra. Questa condizione è tacitamente accettata, quindi compresa. Una lezione di modestia e consapevolezza della nostra umana impersistenza.
li artisti giordani, palestinesi o libanesi si concentrano più che altro sulle questioni di geopolitica e sulle interferenze esterne o c’è anche una riflessione sulle società in cui vivono?
Certo che c’è, per esempio si riflette sulle criticità create dal consumismo, dalla mania del lusso. Sullo stile di vita assurdo secondo i canoni di “Dubai”. Vi sono anche riflessioni sulla situazione dei diritti civili, meno forse sul fenomeno della radicalizzazione dell’Islam. Un fenomeno però che va indagato meglio, perché gli artisti sono tutti molto laici, i religiosi fanno calligrafia.
Hai nostalgia della Giordania e del Libano quando non sei lì?
Mi interrogo sempre sulle radici della nostalgia che provo per questi due paesi. Di solito si ha nostalgia per i luoghi dell’infanzia, luoghi spesso persi ma vivi nella memoria, che ci ricordano qualcosa di materno e di profondo. Il mio legame con questi luoghi però è diverso. È quasi un peso gravitazionale che attrae verso i luoghi dove crescono gli aranci, dove i greci e i romani hanno sviluppato i loro monumenti e costruito il pensiero che è alla base del nostro, da cui sono partite mille storie che hanno ancora riflessi sulla nostra contemporaneità. Insieme a queste sensazioni, vi è forse anche il disagio o forse senso di colpa, per come poi le cose siano andate così profondamente male. Posti bellissimi che oggi sono così devastati, come per esempio il frutteto della famiglia di Suha Shoman. E pensare che i suoi viali erano ombreggiati da file di palme…
Oggi in tutto il Medio Oriente vi sono rischi di settarismo, religioso come culturale. L’arte può rompere questi schemi, magari seguendo l’esempio politico e culturale di Mandela o anche il ruolo salvifico dell’arte rischia di essere un cliché?
L’arte può rompere gli schemi, perché come quando i bambini giocano da soli e arriva qualcuno che chiede se può giocare con lui, l’artista visivo, pone nel luogo pubblico e visibile le sue carte più o meno misteriose o arrabbiate. Le espone al pubblico dibattito e quindi di fatto al dialogo. È come se l’artista dicesse: “Vuoi giocare con me?” E le risposte possibili sono solo due.