Lucia Dell’Aia
Opere recenti di Monica Ferrando a Roma

Varcare la soglia

Dall’oro, al bianco, al nero, al bianco e nero che si fa ombra… In mostra, un percorso di pratica pittorica che attinge alla potenza originaria dell’immaginazione per rappresentare l’invisibile

Nel corpo a corpo con le immagini, capita talvolta di imbattersi nel ricordo, come mi è successo contemplando un dipinto di Monica Ferrando, Corda e furlana (2018, olio su tela), in mostra al Museo Carlo Bilotti di Roma. Quella scarpa abbandonata su uno sfondo bianco, su cui essa proietta la sua ombra, mi ha fatto tornare alla mente un sogno di Ida, la protagonista del romanzo La Storia di Elsa Morante, così descritto: «I suoi sogni, per solito, erano colorati e vividi, ma questo invece era in bianco e nero, e sfocato come una vecchia foto. Le pareva di trovarsi all’esterno di un recinto, qualcosa come un terreno di rifiuti in abbandono. Altro non c’era che delle scarpe ammucchiate, malridotte e polverose, che parevano smesse da anni. E lei, là sola, andava cercando affannosamente nel mucchio una certa scarpina di misura piccolissima, quasi di bambola, col sentimento, che, per lei, tale ricerca avesse il valore di un verdetto definitivo. Il sogno non aveva intreccio, nient’altro che quest’unica scena; ma per quanto lasciato senza seguito, né spiegazione, sembrava raccontare una lunga vicenda irrimediabile».

Come Ferrando stessa ha suggerito, la pittura è quella potenza originaria riservata all’umano di produrre immagini, ovvero quel privilegio di varcare la soglia di un inconoscibile con l’immaginazione. Perciò le sue vite silenti impresse sulla tela risvegliano il ricordo di un tempo mitico inscritto nella forma stessa. Alla pittrice è molto familiare il mito con cui le immagini sono giunte fino a noi, quello delle ninfe, a cui ella ha persino prestato la parola in uno scritto dal titolo I dialoghi delle ninfe, dal quale ricaviamo la loro presenza nella vita degli uomini e soprattutto in quella dei poeti, come ad esempio in quella di Dante, «che ha immaginato di viaggiare da vivo tra i morti per interrogarli, e da questa esperienza di discesa e di risalita è poi sbucato in un giardino», il paradiso terrestre, dove è riuscito finalmente a vederle e a riconoscerle. 

In questa bellissima mostra di opere recenti, troviamo condensato nel titolo stesso (Bianco, nero, in levità passare) un percorso di pratica pittorica, che riguarda il rapporto delle immagini con il fondo bianco, con quello nero e con quella soglia tra il nero e il bianco che è l’ombra, «che via via ricuce / tra nero e bianco questo falso taglio / nella giunzione che le fa passare / l’una nell’altra mentre van perdute / le densità più scure in quelle chiare», come recitano alcuni versi tratti da un componimento della stessa Ferrando, pubblicato nel catalogo della mostra, a cura di Marco Vallora (Quodlibet, 2020). Simile a una sarta che ricuce, quindi, la pittrice tende a diventare, come era alle origini della pittura, “un’ombra senza nome” sulla soglia fra il visibile e l’ignoto. 

Riprendendo l’idea di Kandinskj, per il quale il Bianco è il colore del silenzio, e l’idea della Nera Terra (Melaina Gaia) del poeta Alcmane, Ferrando ci conduce nel cuore della sua arte attraverso il passaggio allo sfondo bianco e a quello nero dopo che la sua pittura ha fatto uso a lungo del fondo oro, «questa specie di segreta legittimazione “trascendente” che sembra coincidere con la luce» e che rimanda alla tradizione delle icone, come spiega la stessa autrice. In una tela dal titolo Volto, oro (2015, olio su tela) troviamo suggestivamente evocato il processo per cui a un certo momento, nella pittura di Ferrando, il fondo tendeva sempre più a salire in superficie fino quasi a cancellare le figure dipinte, come avviene a questa ninfa che intravediamo coperta dall’oro. 

Se la pittura eccede la parola e si rivolge anche a chi non parla (pensiamo alla pittura funeraria), Ferrando attinge a questa potenza originaria dell’immaginazione che vuole rendere visibile anche l’invisibile. Lo sfondo nero, infatti, nella sua poetica pittura, è anche quello spazio a cui Michelangelo si rivolge nei suoi versi: «O notte, o dolce tempo, benché nero». La Notte dei viventi, quindi, nella nostra pittrice, novella “spirtal femina”, diventa lo spazio nascosto della vita, nutrito dalla natura, ovvero quello spazio che l’occhio non conosce o preferisce non guardare. Ferrando lo insegue, alla ricerca di quella forma della terra che chiamiamo “paesaggio” di cui lei tenta di portare alla luce anche solo dei lembi, prima che siano perduti completamente.

I suoi favolosi “Paesaggi perduti”, tutti con lo sfondo nero, hanno la grazia del canto dei cigni di cui parla Socrate nel Fedone di Platone. Interpretare il loro canto, la loro voce, è il suo compito: i cigni, allorché sentono che devono morire, cantano più a lungo e con suoni ancora più belli, pieni di gioia. Gli uomini, aggiunge Socrate, per la paura che hanno della morte, dicono menzogne persino sui cigni, e sostengono che essi cantino per dolore, non riflettendo sul fatto che nessun uccello canta mai per la fame o per il freddo, nemmeno l’usignolo. A Socrate sembra che né i cigni né gli usignoli cantino per sfogare il dolore: lo fanno perché essi sono sacri ad Apollo, sono degli indovini, e contemplano così la visione dei beni dell’Ade, dell’invisibile. 

Facebooktwitterlinkedin