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Vite antiche
Maria Grazia Ciani racconta i miti classici; Sellerio chiama i suoi scrittori a raccontare i classici; Curzio Malaparte racconta Lenin come un eroe classico. L'editoria per l'estate guarda al passato
Il segreto di Arianna. La lingua greca, che qualcuno ha definito “geniale“, è per antonomasia custode dei miti intramontabili. È ricchissima di allegorie; è potenza poetica, è l’idioma della ragnatela delle storie che non conoscono la furia della sabbia devastatrice. Parte da questo più che condivisibile concetto Maria Grazia Ciani, autrice de Le porte del mito, Marsilio, 132 pg.,15 euro). Ha ragione chi sostiene che è meno felice, oppure “homo” non altamente “sapiens”, chi non conosce tutto quello che è nato nell’antica Ellade. Una delle figure più imparentate con l’Olimpo è Arianna, appartenente alla stirpe del Sole, figlia di Minosse e di Parsifae, sorella di Fedra. Tra i discendenti del Sole, il capostipite insomma (dio e astro) gli sono particolarmente vicini soltanto Circe e Medea, «appartenenti al mondo “altro”, ossia quello della magia e dell’occulto.
Sono parzialmente escluse da questo cerchio sia Arianna che la sorella Fedra. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio si parla di Arianna come personaggio famoso. Il poeta Catullo l’annovera tra le donne dell’abbandono. Il lamento di Arianna, scrive l’autrice, è indice del fatto che mai ha raggiunto l’ardore amoroso, quello di Dioniso. Arianna è famosa per il filo usato nel dedalo e lì la donna è collocata per colpa proprio di Dioniso, geloso perché innamorata di Teseo (anche lui figlio dell’abbandono), figlio di Egeo, mitico re di Atene. Le fonti non sono facili da riordinare o interpretare. In ogni caso Arianna, dopo essere stata nella nave di Teseo, si trova in completa e lacrimevole solitudine. Secondo una delle tante leggende a trovarla è Dioniso. La sposa? Non si sa. La perde nella battaglia contro gli Indiani, tra i quali lei si trova in armi. Quel che poi Arianna fece non si può dire con esattezza. Di certo sappiamo che le sue immagini le troviamo impresse (dal dio Efesto) sullo scudo di Achille e ricamate sul copriletto di Peleo e Teti (così almeno sostiene Catullo).
Gli antichi. A proposito dei miti e dei racconti tanto leggendari quanto intramontabili, l’editore Sellerio ha raccolto in un libricino le opinioni di alcuni scrittori (Alajmo, Cataluccio. Galateria, Giménez-Bartlett, Spenser e Stassi), col titolo Vivere con i classici (158 pg., 12 euro). Senza dubbio la più brillante è la catalana Gimènez-Bartlett, la quale racconta della sua idiosincrasia per le citazioni colte quando era ragazza, a dispetto della sua coltissima madre. Odiava i classici, che considerava un orrore, anzi un incubo. Scrive: «Dicono che sia classico tutto quello che è successo nella cultura molto tempo fa ma che funziona ancora oggi come una specie di guida, per indicarci la strada». Racconta in prima persona di Aurelia, al terzo anno di liceo, figlia di un’insegnante di materie classiche. Viene allevata a suon di sentenze greche e latine, poste qui e là anche quando non è necessario. Un esempio. Sua madre le dice: «Non ho nulla a priori contro il fatto che tu vada alla festa». Oppure: «Riordina la tua camera, te lo detto ad nauseam». A casa di Alicia-Aurelia è tutto un furore greco-latino. Poi un giorno il governo spagnolo abolì per decreto l’insegnamento delle lingue classiche nei licei. Entusiasmo tra gli studenti, ma non solo tra di essi. E oggi? Una nemmeno troppo velata nostalgia. La liceale Aurelia-Alicia un giorno infilò in un tema una frase di Aristotele: «La democrazia è nata dall’idea che se gli uomini sono uguali per alcuni aspetti, lo sono per tutti». Confessione dell’allieva: «Al mio prof. È piaciuta da matti».
Scott Spencer, invece, annota tutto ciò che è palese a tutti noi. Racconta che nei conversari con gli amici, anche con quelli più colti, più colti si tende a discutere di Amazon Prime, di Netflix, dei Golden Globe o dell’ultima serie dedicata a uno spietato serial killer. Capita un po’ come quando ci si sbarazza dei vecchi mobili, anche perché riempiono troppo spazio in appartamenti a volte angusti e votati all’essenziale. Racconta che un giorno, tornato a casa, ha ripreso in mano Delitto e Castigo di Fedor Dostoevskij e si è ricordato che molti discorsi tra amici vertevano su serie poliziesche piene zeppe di ammazzamenti, vendette, orrori, miserie. Quasi palpabile la sua gioia nel ripercorrere le pagine del grande russo. «E che cosa ho scoperto?» si chiese. «Terrore, libidine, avidità: è tutto lì, pagina dopo pagina, e ogni paragrafo ti piomba addosso con l’autorevolezza di un martello da fabbro».
Timido e violento. Anche in questo modo Curzio Malaparte definisce Vladimir Il’ič Ul’janov detto Lenin ( lo chiamavano anche Vladimir o Nicolaj) in un libro tra i meno noti (Il buonuomo Lenin, 311 pg., 20 euro, Adelphi). Secondo lo scrittore pratese (autore di capolavori come La Pelle e Kaputt) il capo e teorico del bolscevismo era sostanzialmente un piccolo borghese, prevalentemente chino sulle sue carte e al tempo stesso critico, con modi duceschi, verso coloro che scendevano in piazza. Citando Trotzky, scrive che «non era soltanto russo, ma tipicamente russo», dotato di ottimismo combattivo, appariva anche il Cromwell proletario del XX secolo». «La fosca leggenda di Lenin – osserva Malaparte –, di quel pover’uomo timido e violento, un mostro grondante di sangue, un Gengis-Khan proletario, sbucato dal fondo dell’Asia per precipitarsi alla conquista dell’Europa, non sarebbe mai nata senza l’ottimismo di Candido e di Babbit (figura creata dallo scrittore Usa Sinclair Lewis, ndr), eroi tipici della borghesia occidentale». Questo rivoluzionario «tartaro» dagli occhi terribili, era soltanto un europeo medio, un buon uomo dal fanatismo dottrinario, dalla volontà astratta, «un funzionario puntuale e zelante, un imbrattacarte incapace di fare qualcosa al di fuori dei campi di battaglia, un piccolo borghese casalingo e abitudinario, sperduto nel tumulto della rivoluzione come un bibliotecario capitato nel bel mezzo di un sommossa: in sostanza un fanatico del buon senso». Leninismo, sostiene Malaparte, «come religione non un partito, semmai un Maometto, non certo un Bismarck».