Analisi di un mito negativo
Contro Cesare Romiti
Lo storico amministratore delegato della Fiat ha avuto molte responsabilità nella decadenza della società e della cultura italiane dagli anni Ottanta in poi. Non serve nasconderselo per celebrarne la morte: il suo nome resterà legato alle pessime scelte che fece. Vediamone qualcuna
Non è mancare di rispetto a chi è appena scomparso (Cesare Romiti a 97 anni) se non ci si unisce al coro di chi gli confeziona enfatici elogi funebri. Cesare Romiti, che ha segnato di sé il secondo Novecento italiano, ha contribuito a fare questo nostro Paese peggiore: ossia conflittuale, ignorante, attento solo al primato del denaro. Va detto senza retorica, appunto, per aiutare i lettori di Succedeoggi a riflettere su quale sia il suo effettivo ruolo (importante, ripeto, ma nefasto) nella storia.
Di Cesare Romiti si ricorda, soprattutto, la vittoria legata alla cosiddetta “marcia dei quarantamila”.
Accadde a Torino, fuori dai cancelli della Fiat, il 14 ottobre del 1980. Il picchetto sindacale (sostenuto più dal segretario del Pci di allora, Enrico Berlinguer, che dai confederali), da trentacinque giorni impediva ai lavoratori di entrare in fabbrica: c’era in ballo la firma del contratto. La Fiat, contravvenendo ogni norma sindacale, nel pieno delle trattative aveva messo in cassa integrazione a zero ore (in altre parole, licenziato) oltre ventimila dipendenti per forzare la mano alla controparte. La quale non arretrò e continuò a scioperare a oltranza. Fu a quel punto che un nutrito gruppo di impiegati amministrativi dell’azienda automobilistica si riunì prima in assemblea e poi sfilò per le strade di Torino chiedendo di poter rientrare in fabbrica. La manifestazione, cui via via aderirono passanti, curiosi, altri lavoratori, segnò la sconfitta del sindacato e la conseguente sospensione dello sciopero.
Si disse, si è sempre detto, che dietro tal Luigi Arisio, il caporeparto che aveva organizzato la manifestazione, ci fosse Cesare Romiti. Giorgio Benvenuto, protagonista diretto di quei fatti in quanto segretario dei metalmeccanici della Uil, nel suo recente, bel libro Frammenti d’Italia (a cura di Antonio Maglie, Biblioteca edizioni, 330 pagine, 16 Euro) racconta come alla vigilia della famosa marcia l’accordo fosse stato praticamente raggiunto. E come l’improvviso irrigidimento di Romiti (cui rispose con altrettanta rigidità Berlinguer) abbia comportato una ulteriore dilazione nella quale si infilarono i “quarantamila”. Insomma, l’intenzione di Romiti era, chiarissimamente, rompere l’unità sindacale (così in effetti avvenne e da allora il sindacato perse inesorabilmente senso e capacità di esprimere interessi collettivi, fino alla mesta deriva di oggi), separare i destini degli amministrativi da quelli dei metalmeccanici e, infine, propugnare la superiorità dei “padroni” sugli operai. Come se essi soltanto, i manager (definizione quant’altre mai equivoca, da allora sempre più di moda), fossero in grado di trovare soluzioni adeguate ai problemi sociali. Così non era stato fino ad allora, come si sa: dagli anni Sessanta fino al 14 ottobre del 1980, era stata la sinistra (operai e intellettuali; e i sindacati ancora più dei partiti) a essere ritenuta portatrice delle migliori soluzioni possibili ai problemi collettivi.
Questa è la storia. Quel che è successo dopo, è sotto gli occhi di tutti. Prima, l’illusione del Caf (Craxi/Andreotti/Forlani) di ridare la centralità alla politica ingigantendo il debito pubblico fino a farlo esplodere; poi la deriva “antipolitica” di Berlusconi e Bossi, a testimonianza ulteriore che – come predetto da Romiti – toccasse ai padroni e ai non-politici risolvere le controversie del Paese; infine il tana-liberi-tutti populista (tra Grillo e Salvini), in base al quale non occorrono né competenze né ideali per occuparsi dello Stato, basta promettere (impossibili) soluzioni facili a problemi difficili.
Ma all’origine c’è la pretesa superiorità del “manager” Cesare Romiti. Il quale, sia detto senza offesa per nessuno, ha espresso il suo meglio quando ha potuto condurre la maggior impresa privata italiana, la Fiat, giostrando liberamente con fondi sottratti allo Stato. Introducendo uno dei vizi peggiori del capitalismo italiano: fare soldi facendo pagare il conto alla cittadinanza. Perché poi, la strategia romitiana di differenziare i campi d’interesse della Fiat (editoria, turismo, assicurazioni, ecc.) si rivelò devastante per l’azienda. La quale, infatti, per recuperare ossigeno, oltre a chiedere come al solito soldi allo Stato, dovette affidarsi a due amministratori, Fresco e Marchionne, che lentamente tagliarono ogni altro ramo d’impresa per tornare a occuparsi del core business, delle automobili accantonate da Romiti.
Senza contare che, sempre senza offesa per nessuno, quando si è trovato a farsi imprenditore di se stesso, grazie a una buonuscita da re quando venne allontanato dalla Fiat (oltre cento milioni di Euro), Cesare Romiti dimostrò di non avere propriamente le doti eccezionali che il Palazzo gli attribuiva: Corriere della sera, Aeroporti di Roma, Impregilo sono solo la punta dell’iceberg del clamoroso fallimento di Cesare Romiti come imprenditore dopo l’uscita dalla Fiat.
Ripeto, tutto questo è storia: ci si può solo augurare che il vecchio Romiti ne abbia risposto alla sua coscienza.
C’è infine, da affrontare una questione più delicata ma non meno grave. La mossa opaca che portò alla marcia dei quarantamila, ebbe anche un’altra conseguenza. Devastante. Quella di negare il primato del dibattito, della conoscenza reciproca, della cultura, nella società italiana. A partire da quell’evento («la vittoria dei manager e degli impiegati sulla classe operaia») nel Paese crebbe la convinzione che spettasse all’economia risolvere i conflitti sociali, non alla conoscenza, al dibattito, all’arte e alla cultura come si era creduto lungo tutti gli anni Sessanta e Settanta. La crisi della creatività italiana (quella vera, quella imparentata con il Rinascimento, con la Commedia dell’Arte, con il Barocco, non la creatività da due lire dei sarti e dei cuochi) inizia lì, e porta la firma di Cesare Romiti. Il quale per pura vanità personale sbaragliò il campo di quelli che riteneva gli avversari (chiamiamoli genericamente intellettuali), assoldandone a propria volta quanti più possibile per diffondere il suo verbo urbi et orbi (nei giornali, nelle televisioni, nelle case editrice). Toccò poi a Silvio Berlusconi e a Umberto Bossi completare l’opera, stracciando l’ultimo rimasuglio di dignità che la cultura, la moderazione e la conoscenza avevano conservato. Ma Berlusconi e Bossi sono ancora vivi: di loro parleremo meglio quando saranno morti.