Pubblicato l'epistolario tra l'artista e il critico
Caro Morandi… Caro Piccioni…
Nelle lettere tra Giorgio Morandi e Leone Piccioni c'è quasi il romanzo di una passione comune per la creazione artistica e la sua possibilità di trasfigurare la realtà. Un grimaldello per entrare nel laboratorio del Maestro e del suo giovane ammiratore
Caro Morandi… Caro Piccioni… Che bello tornare a sfogliare questo epistolario di mezzo secolo fa, riportato in un prezioso libello, appena pubblicato dalla casa editrice toscana gli Ori (64 pagine, 20 euro) che rischia di scivolar via sommerso dall’eccesso di uscite, costrette in lista d’attesa dalla prima fase della pandemia. Che bello rivivere quel curioso incrocio di vite di due personaggi che hanno attraversato da versanti diversi il mare agitato della cultura italiana del dopoguerra, offerto bussole, esempi, modelli, traguardi come Giorgio Morandi (1890-1964), pittore tra i più geniali e più introversi del secolo, e Leone Piccioni, (1925-2018), allievo di Ungaretti, critico, scrittore, dirigente televisivo.
Un tuffo all’indietro in una lentezza scomparsa, quando una lettera impiegava almeno tre o quattro giorni per raggiungere il destinatario e sedimentava nel tempo, rivestendo e camuffando a volte di buone maniere, uno scambio di opinioni, desideri, amicizie, curiosità, rapporti, ricordi di conversazioni interrotte. Un mostrarsi senza fretta soffuso di intelligenza e pudore che restava più o meno segreto, non serviva a esibire giudizi, e tantomeno a sollecitare il giudizio di estranei come avviene a chi usa come cestino postale mordi e fuggi la rete.
A rileggerle oggi, le concise battute di questo colloquio a distanza ci si sente invadere da una sorta di doppio imbarazzo. Quello di assistere senza permesso da dietro la porta a una conversazione troppo appassionante, vista la caratura degli interlocutori, per interrompere l’ascolto. Ma allo stesso tempo troppo distante, interrotta o lasciata nel vago per appagarci, farci dimenticare la nostra scorrettezza di spettatori imprevisti.
Un esempio? Il balletto spaesante in punta di penna tra il collezionista appassionato d’arte e il pittore che si prolunga di anno in anno, per la concessione in acquisto di un quadro: un olio raffigurante un vaso di fiori che Piccioni pensava di regalare alla sorella, ma poi finisce per tenere con sé. Il maestro che l’ha promesso si scusa. Non ha avuto tempo, è stato male di salute, è stato preso da altri impegni. Il collezionista che freme e aspetta, ma torna a incalzarlo. Il tutto, solleciti e dinieghi, incartato di prudenza e allusioni di cortesia e mantenuto a fondo pagina da entrambi, sotto convenevoli, saluti, annunci di visite imminenti e gradite. Un intrigante girotondo in punta di penna che sembra davvero l’invenzione di un romanziere in cerca di trama, più che una rievocazione di documenti d’epoca.
Già, un romanzo. Una soluzione che sarebbe sicuramente piaciuta a entrambi, due appassionati lettori, e che può sottrarci alla dimensione più scontata e passiva del saggio, scandita dalla ordinata successione dei capitoli. Potete provarci a gustarlo così anche voi, rinviando la lettura del testo critico di Marilena Pasquali, ex direttrice del museo Morandi di Bologna ospitato da palazzo Accursio. Introduzione che contiene un ricamato corredo di note ricostruttive e una antologia di osservazioni in presa diretta illuminanti. Ecco, forse dovreste fissare il punto di partenza in un paio di immagini incluse in un regesto di foto di opere di Morandi possedute da Piccioni che scandisce come un intermezzo musicale la composizione di questo libricino.
Sulla prima, alla quale riserviamo l’epilogo, perché ci sembra la chiave da non svelare subito dell’intera vicenda, torneremo più tardi. La seconda è la foto di quell’olio così a lungo agognato: una sinfonia di fiori bianchi e rossi che galleggiano contro due sfondi, in basso il grigio attraversato da bagliori, più in alto un ocra sbiadito, che a loro volta confinano con altre due cornici più lievi e cangianti. Un mosaico di preziosismi cromatici e sfumature intriso di una mistica semplicità. Occhio alla data che ne cataloga la versione definitiva: il 1957. Nel carteggio quel quadro aleggia come un fantasma di cui si annuncia l’ingresso imminente in scena già in una serie di lettere fine 1953.
Basterebbe questo scarto di tempo e di attese a definire il gioco e l’assegnazione delle parti in commedia che lega i due personaggi in una sorta di rispettoso corteggiamento a distanza, mosso da impulsi sotterranei, motivazioni e attrazioni diseguali come avviene probabilmente in ogni rapporto amoroso, specie quando la differenza d’età tra i due protagonisti è così ampia, trentaquattro anni, così marcata la distanza di ruoli e scelte personali: Giorgio Morandi è un maestro all’apice di una carriera costellata di incomprensioni e amarezze ma ormai sigillata da una crescente attenzione internazionale, un uomo affaticato che non ha perso curiosità ma si è quasi ritirato dal mondo, da una società e da un’ansia di futuro di cui, reduce di due guerre devastanti, ha misurato e misura l’insensatezza. Leone Piccioni è un giovane intellettuale a tutto tondo e senza paraocchi che registra, analizza e gestisce in prima fila da testimone e attore della comunicazione le fibrillazioni di un’Italia in trasformazione a cui si sforza di offrire ancoraggi, approdi duraturi in profondità, traguardi di verità, come quelli che la genialità creatività e la poesia delle opere di Morandi hanno circoscritto e raggiunto.
Il maestro è sicuramente attratto e lusingato da quel giovane ammiratore che nel 1952 è venuto a conoscerlo nella casa di Via Fondazza a Bologna, un eremo dove vive con le tre sorelle, facendosi presentare da una comune amica pittrice, Piera Fabbri. Lo affascinano la cortesia e la competenza di Piccioni, cui riconosce un modo intenso e originale di accostarsi alle sue opere, ragionare su libri e autori che entrambi hanno letto e appezzato, discutere senza prevenzioni sulle cose che avvengono. Per questo torna ad aprirgli le porte e a manifestargli il piacere di chiacchierare e intrattenersi con lui. Ma – a sfogliare come un diario di indizi le lettere che si scrivono – sembra quasi spaventato dalla sua energia, dal suo desiderio di coinvolgerlo. Dal suo modo di incalzarlo con lusinghiere richieste. E allora fugge, si ritrae, si nasconde.
Per ben due volte, a distanza di anni, respinge i tentativi di Piccioni di dedicargli uno spazio nelle rubriche di approfondimento culturale che ha fondato e dirige in Rai. E in quel ripetuto negarsi si è davvero tentati di ritrovare come un presagio l’eco di quelle difficolta che Morandi frappone a esaudire la richiesta di vendergli quell’acquarello prenotato e concesso. Come se accettare quel desiderio così palese fosse il via libera a un rapporto di intimità ancora più stretto, vincolante. Un imbarazzante tentativo d’intrusione. Figuriamoci lasciarsi intervistare? Parlare in pubblico della sua arte, farsi riprendere mentre dipinge? Mostrare la fatica di quel suo continuo fare e disfare i suoi quadri, al punto di cancellare a colpi di raschietto un dipinto che sentiva imperfetto, perché non aveva abbattuto il diaframma che a suo avviso nasconde e protegge la realtà, l’essenza di ogni figura, ogni oggetto? No, grazie, non è cosa per lui. Morandi non spiega neppure il perché. Lascia solo capire che non è adatto, non è più disposto a esporsi. Non vuole – aggiunge – farsi distrarre dall’impegno della pittura, che così tanto lo assorbe. E fa appello alla comprensione di Piccioni, alla sintonia che è alla base del loro rapporto, che alla fine dispiaciuto si rassegna. Arrendendosi in realtà solo quando tra le scuse messe in campo appaiono ben più plausibili le condizioni di salute del pittore, a confermare lo spettro di quella malattia incurabile che nel 1964 lo porterà alla morte e di cui Piccioni è venuto a conoscenza attraverso amici comuni.
Caro Morandi… Caro Piccioni…
Che strana coppia. E che strano dialogo a distanza, così pieno di reticenze, ritrosie, pudori, non detto. Non sapremo, purtroppo, mai i veri sentimenti che Morandi nutriva per quel suo amico di Roma così gentile e premuroso, così generosamente invadente.
Forse – ma stiamo scivolando nel romanzo – possiamo immaginare che, almeno una volta, Morandi abbia davvero abbassato le sue difese e concesso una prova tangibile dell’affetto che provava per quel nuovo amico che aveva fatto irruzione nella sua vita. Una dichiarazione d’amore resa esplicita da una prova d’artista. Quale? Quel suo primo piccolo olio che Piccioni riuscì a strappargli nel ‘52, per una cifra, 50 mila lire, che entrambi – si intuisce da una lettera inclusa nel carteggio – consideravano inferiore alle quotazioni del maestro. Osservate la riproduzione, molto fedele, a pagina 18. È una delle nature morte più belle di Morandi, non a caso più volte esposta in antologiche anche recenti. Sette volumi, sette oggetti d’uso, scolpiti nello spazio e nel tempo come ultimi confini d’una verità invisibile di cui segni e colori hanno varcato la soglia. Un capolavoro che testimonia il livello di concisione e rarefazione poetica raggiunto dal maestro. Concederlo a quel prezzo, sicuramente di favore, non è stato forse, per un artista tutt’altro che prodigo come Morandi, quasi un dono? Un messaggio di stima e di amore consegnato come un segreto prezioso da possedere e condividere insieme, una porta che si spalanca di colpo su un orizzonte di futuro in comune.
Peccato che il pittore sia morto prima di leggere quel breve testo che anni dopo, probabilmente inizio anni ’70, Piccioni ha dedicato a quella piccola tela. Un inedito, folgorante e toccante, caldo come un abbraccio, come una risposta d’amore arrivata in ritardo che avrebbe impresso al loro rapporto la certezza rassicurante di essere per sempre e molto più di un incontro professionale.
«Ho un Morandi in casa – si confessa Leone Piccioni –. Mio vanto, mio patrimonio. E qualche altro quadro, ma quel Morandi su tutti, su tutti. Per tutti gli altri non spendo a guardarli lo stesso tempo che per quello solo. Mi siedo sul divano, l’ho di fronte… Le ore delle mie soste possono essere diverse, al mattino prima di uscire, o di pomeriggio, prima di riprendere il lavoro, o la sera… Soste diverse d’umore, di sentimenti: ma ogni volta guardo come in uno specchio, muta, quel quadro, trasalisce. Bottiglie, cubi, color latte, color rosa, ombre ferme, bloccate, ma hanno vita, hanno movimento, respirano. Non ne afferri mai il colore, la profondità, il senso: si arricchiscono del tuo sguardo, del tuo pensiero, e te lo restituiscono con una patina nuova, un incanto… Non c’è nulla che tu apprenda o scopra, che in quei colori, già non sapesse: c’è lì ancora tutto quello che tu non sai. C’è sapienza, scienza di vita, ma dona giovinezza, dona canto, febbre dona, e maturità, stupore…».
“Mio vanto, mio patrimonio” è il titolo di una mostra che si aprirà a Pienza il prossimo 29 agosto, al Museo della città, e che esporrà la collezione privata di Leone Piccioni e, tramite essa, la sua idea personalissima dell’arte del Novecento. Nell’occasione sarà anche esposta, al Museo Diocesano, la “Natura morta” di Giorgio Morandi (1952) oggetto delle riflessioni di Piccioni.