Periscopio (globale)
Il trionfo della fantascienza
Il centenario della nascita di Isaac Asimov e Ray Bradbury è l'occasione per riflettere su un genere recente e fortunatissimo. Forse perché è la risposta all’inquietudine derivante da un nostro senso d’inferiorità nei confronti dell'universo?
Il centenario della nascita di due fra i massimi autori di fantascienza del Novecento, Isaac Asimov e Ray Bradbury, nati entrambi nel 1920, rispettivamente il 2 gennaio e il 22 agosto, rappresenta un’occasione ghiotta per rivisitare un genere letterario nato inizialmente al fine di soddisfare l’esigenza di una letteratura d’evasione, ma che ha finito poi per ramificarsi e invadere anche il mainstream. Sempre meno raro è infatti il caso di grandi autori della letteratura cosiddetta seria che si cimentano, occasionalmente o per interi periodi della loro attività, con la fantascienza: si pensi solo ad autrici di cui abbiamo parlato recentemente come Doris Lessing e Margaret Atwood. Se poi andiamo con la memoria a Verne, Huxley, Orwell, Wells, Zamjatin, per risalire se si vuole fino al Viaggio sulla luna di Rostand, a L’altro mondo o gli stati e gli imperi della luna di Cyrano de Bergerac o più indietro ancora alla Storia vera di Luciano di Samosata, ci rendiamo facilmente conto di quanto certe categorizzazioni lascino il tempo che trovano. Ma questo – e va detto in favore del genere – accade anche perché la fantascienza ha saputo assorbire inquietudini e dubbi filosofici che all’inizio le erano forse aliene, o restavano ancora inesplorate, ma che con il passare del tempo hanno raggiunto una centralità sempre maggiore.
Il fatto dunque che scrittori più che rispettabili scrivano (più o meno da sempre) altresì testi fantascientifici ha fatto gradualmente venir meno l’iniziale sospetto accademico nei confronti di un genere letterario che la critica tendeva ad associare alle narrazioni popolari, alla letteratura per l’infanzia, al fumetto e al romanzo poliziesco, insomma a tutto quel coacervo di forme espressive che vengono fatte passare per puro intrattenimento, e che, come ormai sappiamo, rappresentano anche ben altro.
Da un certo punto di vista, e beninteso non da soli ma affiancati da altri autori di analogo peso, i nostri “festeggiati”, Asimov e Bradbury, hanno indicato due delle strade maestre che la fantascienza attuale ancora persegue, pur in presenza di molte possibili (e utili) biforcazioni: per dirla rischiando di generalizzare un po’, l’approccio scientifico e quello psicologico.
Nei romanzi fantascientifici di Asimov, la seconda parte del termine (ma la prima in inglese: science-fiction) è sicuramente preponderante, come del resto anche nei romanzi di un altro rilevante autore a lui contemporaneo, Arthur C. Clarke. Biochimico di formazione, conosciuto soprattutto per il grande ciclo della Fondazione (in origine una trilogia, preceduta e seguita però da due altre coppie di romanzi), in cui si è ispirato vagamente al crollo dell’impero romano, Asimov è autore di molti altri romanzi (ricordiamo almeno la coppia di essi che va sotto il titolo di Fantastic Voyage, o ancora Pebble in the Sky, The God Themselves, Nemesis, The Positronic Man) e di una miriade di racconti, ma anche di polizieschi e saggi di divulgazione scientifica. In particolare, Asimov passa alla storia del genere (e non solo) per aver inventato non i robot, che in letteratura esistevano almeno dal R.U.R. di Karel Čapek, ma semmai le tre leggi della robotica, contraddistinte da un imperativo inderogabile: un robot non deve mai infliggere alcun torto a un essere umano né permettere, per inazione, che l’essere umano sia danneggiato. Inoltre (seconda legge), deve obbedire agli ordini degli uomini, a meno che ciò non sia in contrasto con la prima legge, e proteggere se stesso (terza legge), a meno che ciò non gli sia impedito dal rispetto della prima e della seconda legge.
Su questo principio all’apparenza semplice Asimov costruisce dei racconti – si veda in particolare la raccolta I, Robot – spesso paradossali, in cui tali leggi sono messe alla prova in situazioni estreme, con notevoli rovelli per i malcapitati robot come pure per gli esseri umani che dovrebbero gestirli, ma nell’insieme anche con una positivistica fiducia nel progresso scientifico, che non può escludere eventuali contraccolpi o battute d’arresto ma riesce sempre a farne un’occasione di apprendimento. Robot e umani sembrano destinati a una collaborazione proficua per quanto difficile, come testimonia la coppia d’investigatori, uno umano e uno robotico, protagonisti di The Caves of Steel (1953) e The Naked Sun (1956) nonché dell’integrazione (di molto successiva) The Robots of Dawn (1983); derivati direttamente da celebri coppie del poliziesco (Nero Wolfe/Archie Goodwin, Sherlock Holmes/John Watson, e via dicendo), i due sono personaggi a tutto tondo, dotati di una dimensione psicologica credibilissima, e la loro unione professionale rappresenta un vero valore aggiunto per i testi e per il lettore, pur nella salvaguardia della fondamentale ambiguità, per quest’ultimo, della figura del robot. Se da una parte la nostra paura che la macchina, un’immagine distorta e artificiale di noi stessi, ci sfugga di mano non viene mai esorcizzata completamente, dall’altra il personaggio-robot compie un salto di qualità diventando letterariamente stimolante e foriero di ulteriori sviluppi.
Quanto a Bradbury, il suo è un approccio, come dicevo, più propriamente psicologico, incentrato sulle conseguenze per gli umani di determinate evoluzioni scientifiche e del pensiero. È più agevole ritrovare in lui echi dei citati Orwell e Huxley, come pure del loro precursore Evgenij Ivanovič Zamjatin, il primo grande utopista sovietico, a sua volta influenzato da Herbert George Wells, cui Zamjatin dedicherà non a caso due importanti saggi. Faccio una breve parentesi: Zamjatin è soprattutto l’autore del romanzo My (Noi), vietato in Unione Sovietica e pubblicato in inglese nel 1924 e in francese nel 1929, ritratto di una società dittatoriale fondata sul culto del pensiero razionale. Come in seguito Orwell e Huxley, Zamjatin istituisce quindi un legame evidente tra il regno della scienza e la politica, nel caso specifico la dittatura del proletariato; in questo contesto gli avanzamenti scientifici e tecnici conducono inevitabilmente all’oppressione delle masse e al dominio di una élite di burocrati del regime.
Chiudo la parentesi e torno a Bradbury, che come Brian W. Aldiss, Clifford Simak e J. G. Ballard si concentra sull’esplorazione non tanto dello spazio, quanto della personalità umana, e lo fa mediante una prosa brillante e letteraria, con riferimenti diretti ad autori della tradizione americana come Hawthorne, Irving e Poe. Al di là degli aspetti stilistici, tuttavia, ciò che lo interessa in particolare, almeno nella produzione migliore (quella degli anni Cinquanta e Sessanta), è lanciare un grido d’allarme: per lui, e non solo per lui, la società umana si trova ormai sull’orlo di un abisso. Le sue allusioni, a differenza del modello Zamjatin, non valgono a definire un particolare regime politico, ma investono qualunque tipo di società industriale e urbana, che gli sembra votata alla rovina morale e spirituale prima ancora che materiale. Se quindi si può affermare che con 1984 Orwell avesse voluto scrivere in primo luogo un libro antistalinista, ecco che Fahrenheit 451 – l’opera più conosciuta di Bradbury, del 1951 – non può essere certo considerata tale, ma semmai va letta come un monito che riguarda in generale il futuro dell’umanità, quale che sia la forma di governo che questa si darà.
Un altro aspetto o motivo ricorrente nell’opera di Bradbury – il quale peraltro opera con eleganza su diversi fronti, dal fantastico al poliziesco, e sarà perfino lo sceneggiatore del Moby Dick di John Huston – è il potere diabolico della città, così come appare nel racconto City, ma anche in quel vero classico che sono le Martian Chronicles: siamo qui di fronte a delle città-formicaio di tipo tentacolare, caratterizzate da luci accecanti, da un intenso traffico di macchine futuristiche e velocissime, da una presenza ossessiva e ubiqua della pubblicità, immagini alle quali oggi i film di fantascienza (da Blade Runner in poi) ci hanno più che abituato. In altri casi, la Terra, ormai compromessa, è già stata abbandonata dall’uomo, ad esempio in seguito a una catastrofe nucleare, e seguiamo gli sforzi talora futili e inconcludenti dei sopravvissuti per ricreare altrove condizioni di vita accettabili.
I rapporti umani sono peraltro spesso contrassegnati da una certa ferocia: nel fortunato racconto The Veldt (1950) due bambini si servono di un giocattolo che permette di ricreare un determinato ambiente esterno, la savana, facendo divorare dai leoni i genitori che li hanno indispettiti. Nell’universo post-apocalittico di Bradbury dell’umano, nell’uomo (e nella donna), rimane ben poco; la sola possibilità di riscatto sembra provenire dal recupero di un modello di povertà e purezza di tipo evangelico, la cui esistenza è però messa costantemente a repentaglio.
E ancora, in Bradbury, è sempre ben presente l’effetto farfalla: in The Golden Apples of the Sun (1953), per esempio, nel corso di un safari nella preistoria organizzato da un’agenzia di viaggi lo schiacciamento accidentale di una farfalla modifica il risultato delle presidenziali americane nonché l’ortografia; come già rilevava Jean Gattegno nel suo Saggio sulla fantascienza, testo fondamentale e fondativo di una nuova attenzione critica anche in considerazione del periodo in cui uscì (1971), Bradbury sarà insomma il primo a presentarci la realtà come una partita a domino, dove ogni tessera è legata all’altra e possono quindi crearsi concatenazioni imprevedibili e irrimediabili all’interno di un ingranaggio gigantesco, di cui nessuno può dirsi padrone.
Nell’insieme, il concetto stesso di Dio è del resto piuttosto assente dall’universo fantascientifico, nonostante i debiti indubbi che il genere ha contratto con la tradizione biblico-apocalittica (e si pensi ancora una volta ad Asimov, e persino ai nomi della coppia d’investigatori cui accennavamo, rievocazioni di Daniele ed Elia). In molti romanzi assistiamo all’esplorazione di universi alieni e a incontri e scontri con extraterrestri, che a volte acquisiscono le medesime prerogative dell’essere umano, ma in ogni caso l’idea di una mente ordinatrice globale sembra, nel futuro, del tutto obsoleta e abbandonata. Possono esserci in compenso degli Eterni – come avviene, credo per la prima volta, in The End of Eternity (1955), forse il più bel romanzo di Asimov, certamente il più suggestivo –, umani immortali che hanno deciso di modificare il passato per curare il presente dai suoi mali; tema questo che ritroviamo fra l’altro in una pletora di serie e miniserie televisive dei nostri giorni, dalle quali Asimov dovrebbe riscuotere, e non sempre avviene, almeno un degno tributo. Ma lo stesso discorso vale, sempre per Asimov e il medesimo romanzo, per il tema del terrore che susciterebbe l’eventuale incontro con un secondo se stesso, qualora due linee temporali alternative o due universi dovessero incontrarsi.
Se è vero che la fantascienza rappresenta la risposta all’inquietudine derivante da un nostro senso d’inferiorità, a sua volta basato sull’incapacità di capire e pilotare la realtà che ci circonda, non è difficile pronosticarne ulteriori sviluppi ed evoluzioni. In un mondo sempre più alieno, l’alieno in quanto tale è già parso a molti autori come il minore dei mali; molto minore, almeno, dell’alieno che è in noi e che non trova risposta ai suoi stessi quesiti.