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Storie con mistero
Andrew Sean Greer e il perenne razzismo d'America; John Mortimer e i matrimoni sbagliati e Michele Navarra e la balentìa barbaricina: tre storie gialle sui misteri delle passioni (e degli amori)
Il lato nascosto. Lo hanno detto e scritto tutti: la famiglia può essere un groviglio di segreti, inattesi turbamenti, reticenze che si fanno veleno sottile, scelte da compiere ma rimandate ad infinitum. Andrew Sean Greer ne La storia di un matrimonio (Adelphi, 224 pg., 11 euro) narra l’America del 1953, che crede di essersi definitivamente liberata dai fantasmi della seconda guerra mondiale. Ma non è così, soprattutto se si ha la pelle nera. «Crediamo di conoscere la persona che amiamo. Nostro marito, nostra moglie. E li conosciamo davvero, anzi a volte siamo loro… ma è davvero così? Accanto a noi, nel letto matrimoniale scopriamo uno straniero di tipo novo…». Alla giovane Pearlie aveva detto Holland: «Ho bisogno che tu mi sposi». Si sposano ed hanno un bambino. Vivono decorosamente nella parte più vicina al mare di San Francisco e in qualche modo vogliono far proprio «l’empito americano di speranza».
Holland è stato in guerra e quando la nave su cui si trovava è stata colpita si è tuffato in mare, un mare denso come il gasolio che infiammava la pelle dei superstiti. Non è tanto la bruciatura a farlo stare male e nemmeno la destrocardia (il cuore collocato a destra), quanto un senso di disagio e di paura. Prima di tornare dalla moglie è stato per settimane in un ospedale militare. Qui ha incontrato un soldato bianco, Buzz, che s’innamora di lui. Holland. Situazione che è ormai alle spalle? Per niente: Buzz raggiunge l’amato e parla a lungo con Pearlie, cercando di convincerla che i sentimenti che lo legano appassionatamente a Holland sono molto forti. Addirittura Buzz, che è un imprenditore benestante, offre dei soldi alla giovane donna a patto di allontanare definitivamente una ragazza bianca con la quale Holland condivide il percorso casa-fabbrica. Pearlie accetta, ma nel suo intimo capisce che si è spezzato il cordone matrimoniale. Tutt’attorno c’è un’America che non riesce a cambiare: la segregazione continua a esistere, il pregiudizio affonda in radici profonde. Nemmeno il conflitto mondiale è riuscito a scalfirlo, tanto è vero che molti veterani si rifiutavano di seppellire i cadaveri con la pelle nera. E Pearlie, la donna che ritagliava le brutte notizie dal giornale per non turbare la fragilità emotiva del marito, pensa a questo punto che le persone «sono illusioni ottiche» e che «la vita non può essere fissata in anticipo».
La caduta. Quando per un racconto tinto di mistero si cerca la verità in un’aula giudiziaria, il ritmo narrativo si sposta come un pendolo. Un bellissimo esempio lo fornisce John Mortimer (1923-2009), avvocato inglese e autore di romanzi, sceneggiature, commedie. È appena uscita la sua raccolta di racconti, Rumpole per la difesa (Sellerio, 297 pg. 14 euro). Horace Rumpole, anziano «barrister dell’Old Baley», ossia avvocato alla sbarra per l’alta corte criminale di Londra, si trova a difendere un suo amico medico Ned Dacre, la cui moglie Sally, “infelice“, è caduta a terra dopo aver sbattuto la testa. Risultato: emorragia cerebrale. L’incidente è avvenuto immediatamente dopo la cena, mentre i due coniugi s’apprestavano a guardare la televisione. L’autopsia indica che il decesso è da imputare al fatto emorragico «a seguito di un’aggressione». Le foto mostrano evidenti ematomi sulla schiena e sui fianchi della donna. Il dottor Dacre viene arrestato. Suo difensore è appunto Rampole che ha il vantaggio di sapere che il marito della vittima era stato amante dell’anatopatologa Pamela Gorle, e che da questa riceveva lettere minacciose (buttate via dall’imputato) in cui la “Regina dell’obitorio” avrebbe fatto di tutto per decretare la fine del matrimonio tra Sally, bella donna, un po’ viziata, talvolta dedita all’alcol, e il dottor Ned. Rumpole ha in tasca questo vantaggio, ossia conosce le intenzioni del medico legale, pur non poterle provare. Chiede al giudice che vengano esposte le foto della donna morta. A un’insidiosa domanda di Rumpole, Pamela risponde che le ombre sul corpo non sono ematomi, bensì macchie emostatiche, ossia agglomerati di sangue formatisi per la posizione del corpo. Si potrebbero incidere, ma Pamela non l’ha fatto. La corte assolve l’ex amante di Ned. Questi, all’uscita dell’aula, si guardano. Horace Rumpole ha il sospetto che in quell’occhiata possa nascondersi una diabolica complicità.
Vendette. È avvocato penalista anche l’autore di cui ci apprestiamo a parlare: Michele Navarra, il quale si è occupato a lungo della strage di Ustica e della banda della Uno bianca. Stavolta entra nei meandri di una criminalità che potremmo chiamare generazionale: le faide che si consumano in certe zone della Sardegna, una volta prevaricanti in tutta la regione, oggi relegate solo in certe porzioni di territorio. Nel suo libro, Solo Dio è innocente (Darkside, gruppo Fazi) 245 pg, 16 euro) domina la cupezza di una terra aspra che pare continui a influenzare i caratteri, gli stili di vita e i pensieri, quasi automatici, della gente che ha nel Dna il veleno della vendetta. Basta poco per far sgorgare sangue e sospetti. Una mala parola, o soltanto una sgarbata allusione, che un uomo si alza dalla sedia del bar e corre verso una casupola. Obiettivo: sparare contro chi ha offeso lui e la sua famiglia. Dietro questa intenzione emerge un cumulo di rancore, così forte che difficilmente la ragione o il semplice buonsenso riescono ad arginare. Tutto questo avviene- e non smette di accadere da secoli- nel paese di Fonni, il più alto dell’isola, abbarbicato ai piedi del massiccio del Gennargentu. Si deve mettere in pratica il cosiddetto codice barbaricino e per far questo occorre essere uomo di “balentìa” (termine sardo di origine spagnoleggiante) e onore. La vittima – e qui sta il particolare anomalo della vicenda – è un ragazzino. Il padre è fuori, il fratello più grande è a pochi centimetri. La giustizia si mette in moto, anche con simulazioni, rese necessarie perché il presunto omicida è claudicante e quindi si rende necessario valutare la sua capacità di correre e verificare in quanto tempo. Un avvocato di Roma segue da vicino la dinamica criminale, che però non si limita alla prima vittima. Altri soccombono dopo un’esistenza slabbrata. Si scopre che crolla l’alibi del criminale, che afferma che in quelle ore si trovava a casa di un travestito. Non per onore, ma per semplice e doloroso sfinimento una donna del clan si toglie la vita dopo anni di feroci maltrattamenti del marito e non crede più a una sorta di resurrezione grazie al suo amante nascosto, che però non si schioda dal suo perimetro familiare. L’incriminato, nella sala colloqui del carcere, dice al suo legale che “la vita si sveglia piangendo“. La verità alla fine emerge – ed è un vero coup de théatre – ma il volto dell’accusa è rivolto all’intera comunità. Riflessione dell’avvocato, sulla scia del pensiero d’un filosofo: «Soltanto chi ha raggiunto la persuasione della perfetta inutilità dell’esistenza può cominciare a goderla con calma e semplicità».