Lucia Dall’Aia
La nuova raccolta poetica di Francesco Giusti

Spolverare i ricordi

Il fantasma di Venezia, Sant’Orsola lasciata da Carpaccio nel suo letto... È piena di suggestioni la poesia bilingue dell'autore veneziano che passando dal suo dialetto alla lingua italiana (e viceversa) coglie le trasformazioni della natura e il loro volto cangiante

«La sua è una poesia che segue i meandri dell’anima, prende nota di fatti e accadimenti, pesa e misura con cura le alte (poche) e basse (molte) maree della vita». Apprendiamo questo della ricerca di Francesco Giusti da una nota biografica presente in una sua plaquette  dell’ottobre 2019 a tiratura limitata intitolata Ai cancelli del mare, con disegni dell’autore. Il mare che riconosciamo oltre i cancelli è quello di Venezia, una sorta di «Costantinopoli a forma di gondola», come ci piace definirla con i versi dello stesso Giusti, tratti da Quando le ombre si staccano dal muro (Quodlibet, Macerata 2019, p. 45). Le maree della laguna veneziana non solo ispirano i moti dell’anima, ma la stessa lingua poetica chiamata a esprimerli: una lingua che, come nota Giorgio Agamben nella prefazione al volume, nasconde in sé il dialetto, proprio quello di Venezia. 

Il volume è infatti il terzo pubblicato nella collana Ardilut di poesia bilingue, diretta da Agamben, e che deve il suo nome alla valeriana selvatica, scelta dal giovane Pasolini come simbolo della sua opera in friulano. Come chiarisce sempre Agamben, l’uso dell’italiano e del dialetto veneziano nelle poesie di Giusti pone anche il problema del significato della traduzione della poesia. Le dieci poesie che aprono la raccolta invertono la direzione consueta della traduzione dal dialetto all’italiano, perché esse sono invece una traduzione in dialetto delle sue poesie scritte in italiano, mentre le dieci poesie che chiudono il volume sono una traduzione dal dialetto all’italiano. Quasi in un «trafelato andirivieni», sempre secondo il filosofo, la poesia di Giusti rimanderebbe a un «trepidante e immanente bilinguismo» (p. 12). Anche la postfazione di Elenio Cicchini ci invita a interpretare la natura profonda di questo bilinguismo, individuandola nella tensione tra l’esclamare e il dire (p. 124). 

Giusti ci traghetta quindi da una lingua all’altra così come ci ricorda, se pensiamo alle sue plaquettes autografe, che la pagina stampata della poesia è solo un volto della stessa, dietro cui si cela quello dell’incunabolo in cui si mescolano la stampa e l’azione della mano, ovvero il disegno, il colore, la correzione e, in ultimo, la materia stessa di cui è fatta la parola che nomina le cose. Fra le grandi cose nominate che attraversano in modo ricorrente la poesia di Giusti ci sono le stagioni, le metamorfosi della natura che determinano una mutazione del paesaggio e dell’animo. Il suo bilinguismo sembra quindi consentirgli, con il passaggio da una lingua all’altra e dalla parola alla cosa, di oscillare fra le trasformazioni della natura, inseguendo il loro volto cangiante. 

La traccia invernale della sera, in versi italiani, poi tradotti in veneziano: «è questa muta di campane / che ti si è messa invernale alle calcagna» e l’amante della sfera del silenzio è alla finestra e osserva che «nella fontana della piazza / c’è ancora acqua e le stelle vi galleggiano / come pensieri nella minestra» (p. 36). Struggente è nella sua poesia la visione di Venezia in autunno: «Con piedi di malinconica ora sale / sul piccolo ponte che ha veduto / giovani bocche fare capriole nei baci, / dai bicchieri dimenticati, / la rossa allegria che una luce dispensatrice di ultimo tepore / prende e porta via dagli umani nidi» (p. 49). Il poeta segue il mutare delle stagioni con il suo sguardo che si ferma sulle cose e ci invita a riflettere sul fatto che «tanto mutare ci disorienta / Poveri questi fiori che tremano sull’altare della pieve», come scrive nel componimento intitolato Autunno, presente nella plaquettegià citata, intitolata Ai cancelli del mare

Inseguendo i mutamenti delle stagioni, quelli del giorno e quelli della luce, la voce del poeta si rivolge all’astro mutante per antonomasia in una poesia in italiano tradotta anche in veneziano: «Quando tutto è una luce / che in fondo alla nebbia vacilla / tutto in fondo prende / un’altra forma. Quando tutto / si fa incerto e poi crolla / tutto in un nuovo paesaggio si assesta. / Rincasiamo. Facciamo / suonare la chiave nella serratura. / Nello specchio salutiamo / uno, sempre lo stesso, / sempre un altro. Così / ci affidiamo all’attualità di una luna di porcellana; / quell’altra, quella di carne, cambia faccia, /s’impiglia nelle corde della vita» (p. 32). 

La luce e le forme che cambiano, e che tuttavia lasciano una loro impronta, sono rintracciate dal poeta anche nei luoghi dell’arte veneziana, come nella poesia intitolata Silenzio di Sant’Orsola: «Da un poco conosciuto / dismesso tunnel che striscia / nelle viscere di un argentato / cielo di giugno agli albori, sbuco / nella stanza dove il Carpaccio / ha lasciato Sant’Orsola / nel suo letto. Ora a farmelo capire / c’è la tiepida forma del giovane corpo / impressa nelle lenzuola. Una angelicata / lama di luce terrena entra / dalla camera accanto recapitando / tra le solite notizie qualche domanda / di puro elegante silenzio» (p. 50).  

Capita, quindi, talvolta, che queste forme impresse, come quella del corpo di Sant’Orsola nelle lenzuola, o le orme del passato, diventino ombre che si staccano dal muro e il poeta può così anche interrogarle, intonando un canto lunare, come fa d’abitudine con lo spettro di Venezia e con i suoi specchi. Nella poesia intitolata Vangelo il poeta scrive in veneziano: «Le figure / in riga sfidava quel che la meona teniva. / ‘Na bela sera stancà che ‘l se giera / de pensar a sto fato che da un toco ghe tocava / e impissando per ogni muso ‘na stela a poco costo, / el ga scominssià a ripassar in rassegna / l’intiera fila de parenti, lisiere ombre sora el muro» (p. 19). 

Quando quindi le immagini tra loro coalizzate sfidano la mente, il poeta, stanco di pensare alle cose, accende di sera per ogni fantasma una stella a poco prezzo e comincia a passare in rassegna l’intera galleria dei simulacri: è così che le ombre si staccano dal muro. Per le stelle che lo seguono, in una poesia della plaquette  Virus (marzo 2020), sceglierà delle calzature in modo che comodamente lo accompagnino nella sua avventura poetica, che è principalmente quella di «spolverare boccettine di ricordo sciolto / come sangue di San Gennaro». 

Facebooktwitterlinkedin