Raoul Precht
Periscopio (globale)

Memoria di Marsé

Ricordo di Juan Marsé, lo scrittore catalano appena scomparso. Ricamando con la memoria storica del franchismo, aveva ricostruito una Spagna parallela nella quale la borghesia e il proletariato trovavano sempre un punto di incontro

Un paio di settimane fa, per l’esattezza il 18 luglio, è venuto a mancare, a ottantasette anni, Juan Marsé. Era l’ultimo esponente rimasto, insieme a Edoardo Mendoza, di tutta una generazione di scrittori – fra i quali il più noto Vázquez Montalbán – formatisi a Barcellona fra gli anni Cinquanta e Sessanta.

Nato nel 1933 nella capitale catalana con il nome di Juan Faneca Roca, sarà adottato dai coniugi Marsé. La madre era deceduta durante il parto e il padre, un autista, non poteva tenerlo con sé. Pare che sia stato tutto casuale, semplice e terribile come talora accade nella vita: i coniugi Marsé avevano appena perso un figlio e non potevano averne altri; prendono un taxi davanti alla clinica e scoprono, strada facendo, che l’autista del taxi ha appena avuto un figlio, ma non sa come fare per tirarlo su da solo. L’accordo che ne segue sarà il primo punto di svolta nella vita del piccolo Juan. Ma l’assenza o precarietà della figura paterna sono iscritte nel suo destino. L’arresto del padre adottivo, in quanto simpatizzante repubblicano, alla fine della guerra civile sarà infatti il secondo evento significativo nella sua esistenza. In una situazione economica compromessa, ad appena tredici anni Juan è poi costretto a lasciare la scuola per guadagnarsi la vita come apprendista orefice; avrebbe potuto essere una battuta d’arresto e invece il ragazzo fa di necessità virtù. Rievocando quegli anni, Marsé dirà in seguito che le necessità familiari lo avevano portato a liberarsi con profitto da una scuola in cui non gli veniva insegnato altro che il rosario e qualche delirante inno franchista, come il famigerato Cara al sol.

Il romanzo d’esordio, Encerrados con un solo juguete, è del 1961; scritto l’anno precedente, durante il periodo del servizio militare, esce poco prima che Marsé si trasferisca a Parigi, per un soggiorno che durerà più di un anno. A Parigi insegna spagnolo, coltiva un amore ossessivo per il cinema, scrive dialoghi cinematografici, traduce sceneggiature e trova anche un lavoro vero, come tuttofare o “garçon de laboratoire” all’Istituto Pasteur, nel laboratorio di biochimica cellulare diretto da un futuro premio Nobel, Jacques Monod. Tornato a Barcellona, pubblica un secondo romanzo che in seguito ripudierà e sbarca il lunario lavorando per giornali, agenzie pubblicitarie, riviste e case editrici. Intanto, e malgrado la precarietà di queste occupazioni, il nome dell’unico operaio capace di descrivere con dovizia di particolari tanto il proletariato quanto la borghesia – gli altri scrittori coevi provengono per lo più da famiglie abbienti – comincia a circolare negli ambienti letterari.

Il primo libro davvero importante di Marsé è Últimas tardes con Teresa (1966), in cui fa la sua comparsa un personaggio che tornerà anche in altri testi successivi, quello di Manolo Reyes detto il Pijoaparte, una specie di doppio, picaresco e sguaiato, dell’autore. L’incontro sentimentale, all’apparenza convenzionale, di un simile individuo, un ladruncolo di bassa lega, con una ragazza, seppur ribelle, della buona borghesia qual è la protagonista Teresa Serrat diventa lo spunto per una prima approfondita analisi del contesto sociale e cittadino in cui i due si muovono e delle tensioni, nell’immediato dopoguerra, fra tre poli o comunità che perseguono interessi divergenti, ovvero il proletariato, la borghesia e i dignitari emergenti del franchismo. Da parte sua, Teresa è accecata dalla figura e dall’aura del giovane operaio rivoluzionario, che tuttavia Manolo non è né sarà mai, e che è dunque frutto principalmente della sua immaginazione romantica. A interessare Manolo sono in realtà unicamente l’ascesa sociale e le prospettive che la relazione con Teresa – figura ispirata almeno in parte alla figlia del pianista Robert Casadesus, a cui Marsé aveva dato lezioni di spagnolo a Parigi – potrebbe schiudergli. L’approfondimento della dimensione psicologica dei personaggi consente a Marsé di sfuggire dai facili stereotipi cui la storia si presterebbe e di creare una narrazione forte e convincente. Quasi inutile dire che al regime franchista e alla sua ideologia puritana il libro non piacerà: la censura ne sottolineerà le scene scabrose, il linguaggio sboccato e l’immoralità nonché allusioni politiche considerate “di sinistra” e quindi inaccettabili.

Rappresenta in un certo senso una continuazione dell’opera precedente il romanzo La oscura historia de la prima Montse (1970), dove assistiamo ancora una volta a un incontro tra due personaggi che nulla sembrerebbe accomunare, una donna colta e religiosa, Montse appunto, e un giovane ateo e ambizioso – di nuovo il Pijoaparte, dopo il soggiorno in carcere che aveva chiuso il romanzo precedente –; un incontro che la fenomenale capacità d’osservazione di Marsé e la sua cura del dettaglio rendono tuttavia del tutto credibile. Ancora più accanito e stringente si fa qui lo studio delle dinamiche sociali e politiche, mentre più netto appare l’anticlericalismo, che resta uno dei temi principali dello scrittore.

Si te dicen que caí (1973), una delle opere fondamentali della narrativa spagnola di quegli anni, segna il raggiungimento della maturità letteraria di Marsé, soprattutto in quanto narratore. Mette qui in scena il quartiere dell’infanzia, il Guinardó-Monte Carmelo – “el barrio” per antonomasia, che però è forgiato dall’immaginazione e non coincide necessariamente con quello reale – e la sua popolazione, formata da borghesi agiati ma anche da un proletariato d’immigrati (“charnegos” e “kabileños”) provenienti in gran parte dall’Andalusia. La vita quotidiana viene rievocata, con una prima persona collettiva e cangiante o “plurale”, anche attraverso l’invenzione dei cosiddetti “aventis”, termine mutuato da “aventura”, sorta di rimemorazione che fonde e confonde in modo convincente realtà e invenzione narrativa, permettendo di creare quasi una contro-storia, alternativa a quella vera che aveva visto trionfare il franchismo. Un critico, Juan Tena, ne ha dato una definizione calzante, presentandola come una “cellula narrativa originale (…), manipolazione da parte della memoria di qualunque manipolazione della memoria.” Si tratta, come scrive lo stesso Marsé, di respingere la memoria unica imposta dal regime franchista (e dal clero che lo sostiene) nella sua narrazione dei fatti storici, che naturalmente comporta la distruzione di qualunque memoria “altra”, in primo luogo di quella dei perdenti, mescolando finalmente “la verdad verdadera con la mentida mentidera” (la verità vera con la menzogna menzognera). A partire dal titolo, un verso del citato inno Cara al sol, che qui viene utilizzato con un retrogusto ironico e polemico: le parole in questione non si applicano più all’eroico soldato morto sul campo di battaglia per far trionfare la civiltà contro il comunismo, bensì a personaggi che continuano a sopravvivere nei bassifondi ma sono morti e corrotti dentro. Bloccato dalla censura franchista, il romanzo sarà pubblicato in Messico, dove vincerà un premio internazionale, e in Spagna non vedrà la luce che tre anni dopo, anche grazie alla morte di Franco.

Del ritorno al quartiere natio da parte del protagonista, Jan Julivert Mon, un ex pugile divenuto rapinatore, tratta invece Un día volveré (1982), nel quale lo stile di Marsé, semplice e diretto, davvero realista nel senso più puro, si mette al servizio della vicenda narrata, imperniata sulla consapevolezza di una vita gettata alle ortiche e sul desiderio di riscatto che ne deriva. Ancora una volta a interessare Marsé sono le vicende di una vittima, se non innocente in senso stretto, almeno in gran parte ignara degli ingranaggi sociali che la stritoleranno.

Giungendo agli anni Novanta, è da ricordare almeno El amante bilingüe (1990), opera all’apparenza più intimista, dove però ancora una volta la creazione di una personalità parallela e distinta dalla propria diventa per il protagonista una specie di grimaldello per entrare negli interstizi del tessuto sociale. Qui, ai temi sociopolitici classici di Marsé si aggiunge la polemica contro il separatismo e l’estremismo catalano che lo scrittore – i cui romanzi sono scritti in castigliano – aborre e dai quali si tiene accuratamente lontano, convinto com’è della ricchezza del bilinguismo e della doppia appartenenza alla Catalogna e alla Spagna che gli sono toccate in sorte.

Tra le ultime opere, da menzionare sarebbe anche Robos de lagartija (2000), ancora una volta ambientato nel quartiere del Guinardó, ma in cui si accentua la ricerca stilistica dell’autore, che stavolta ci parla anche attraverso la voce di un cane e di un feto, a loro modo testimoni di una società che nei decenni si è ulteriormente deteriorata.

A contribuire alla fama di Marsé è stato anche il carattere, diretto e scevro da compromessi. Nel 2005 rifiuta di far parte della giuria del premio Planeta, che gli era stato assegnato tanto tempo prima, nel 1978, protestando per la scarsa qualità dei testi selezionati e proposti alla giuria. Spesso polemico nei confronti degli adattamenti cinematografici delle sue opere, di cui non sarà quasi mai soddisfatto, rifiuta anche un seggio all’Accademia di Spagna, istituzione di cui non gli interessa far parte. Per non parlare del Partito comunista, di cui è un semplice militante, non certo un dirigente, e che lascia dopo cinque anni per protesta contro l’ostracismo decretato nei confronti di un suo grande amico poeta, l’omosessuale Gil de Biedma, in una vicenda che fa pensare all’analoga persecuzione patita dal giovane Pasolini ad opera del PCI.

Marsé ottiene poi nel 2008 il premio Cervantes, una specie di Nobel ispanico, per l’insieme della sua opera e per la capacità di descrivere magistralmente e con spirito eminentemente critico i tempi della propria infanzia a Barcellona, che sono poi i tempi della guerra civile e dell’ascesa del franchismo. Veniva così premiato un autore caratterizzato da una fede incondizionata nell’abilità della letteratura di creare un mondo non necessariamente più bello, ma sicuramente più logico e ricco di quello reale. Tutto questo nel solco dell’adesione, mai venuta meno, a un realismo, come lo definiva il poeta Dionisio Ridruejo, “alla spagnola”: un realismo critico e di denuncia morale e giudiziaria, temperato dall’influenza, almeno a livello teorico, del magistero di Henry James e Cervantes.

In conclusione, colui che ci ha lasciato qualche giorno fa è stato un grande artigiano, che ha saputo trasferire le sue notevoli competenze dai gioielli alla scrittura, creando anche con le sue narrazioni monili che resteranno nel tempo.

Facebooktwitterlinkedin