Finestra sul mondo
Il Christo parigino
Il Centre Pompidou di Parigi riapre con una grande mostra dedicata agli anni parigini di Christo culminati con il celebre “rivestimento” di Pont Neuf. Si tratta del primo grande omaggio all'artista appena scomparso
«Nascondere gli oggetti per renderli più visibili». La sintesi la fa Serge Lasvignes, direttore del Centre Pompidou, nel presentare la mostra Christo e Jeanne-Claude, Paris! (1 luglio-20 ottobre), un omaggio di Parigi ai due artisti naturalizzati americani famosi per aver «impacchettato il mondo».
Dal 18 settembre al 3 ottobre 2021, la città che li ha visti nascere artisticamente agli inizi degli Anni Sessanta li vedrà ancora in azione – da l’aldilà –: l’Arc de Triomphe verrà avvolto da circa 270mila metri quadri di tessuto blu e argento riciclabile secondo un progetto concepito nel 1962, minuziosamente studiato, portato avanti con tenacia per una vita e che, finalmente, verrà realizzato grazie al Centre Pompidou e al Centre des Monuments Nationaux .
Il Centre Pompidou ha appena riaperto e i primi visitatori, muniti di mascherina e distanziati fra di loro, molto emozionati, sono stati accolti dall’applauso di benvenuto del personale. La curatrice e grande esperta di Christo, Sophie Duplaix, nota una strana coincidenza: «Questa mostra – dice – rappresenta un’occasione molto particolare, indossiamo tutti le mascherine e la visita è ad oggetti che sono impacchettati. Penso che tutto questo crei uno strano effetto nella mente del pubblico». Christo ha voluto che la mostra non fosse una semplice retrospettiva ma, «piuttosto un percorso alla scoperta dell’origine della sua matrice creativa», un nucleo in cui tutta l’opera futura e il pensiero della sua vita era già presente, seppur in scala ridotta.
Gli anni parigini che vanno dal 1958 al 1964 in cui l’artista – studente dell’Accademia di Belle Arti di Sofia, fuggito a 22 anni dalla Bulgaria comunista con un viaggio a dir poco avventuroso – nella capitale francese scopre la libertà, l’espressionismo americano, e incontra Jeanne-Claude, che diventerà sua moglie e parte integrante della sua produzione artistica tanto da aggiungere il proprio nome nella firma delle opere. La mostra celebra e rende omaggio anche ad un momento successivo ma imprescindibile del rapporto di Christo con la città: quello dell’impacchettamento del Pont Neuf nel 1985 e della sua genesi.
Omaggio postumo poiché l’esposizione, che si sarebbe dovuta inaugurare lo scorso 14 marzo, con Christo, ormai debolissimo e non in grado di viaggiare, collegato in video da New York, è stata rimandata proprio alla vigilia del vernissage a causa della pandemia e con la chiusura del Centre Pompidou. Il 31 maggio, pochi giorni prima del suo ottantacinquesimo compleanno, Christo è morto e così, la mostra ha aperto “orfana”, come scrive Le Monde nell’articolo dedicato alla vita e alle opere della coppia di artisti che hanno creato opere temporanee senza mai chiedere una sovvenzione né pubblica né privata ma autofinanziandosi con la vendita del ricchissimo materiale preparatorio delle istallazioni. «Voglio essere assolutamente libero, totalmente irrazionale, senza dover dare alcuna giustificazione di quello che faccio, non voglio cedere neppure un centimetro della mia libertà», ha sempre dichiarato Christo.
Christo Javacheff, questo il nome completo dell’artista, e sua moglie Jeanne-Claude de Guillebon, di ricca e nobile famiglia, “gemelli”, secondo Christo, nati nello stesso giorno, il 13 giugno 1935, e uniti per oltre 50 anni (lei è morta nel 2009) in un tandem perfetto: Christo creava e Jeanne-Claude si dedicava alla realizzazione – spesso impossibile (23 progetti realizzati, 47 respinti) – delle sue idee. Si erano conosciuti – racconta Le Monde – perché Christo, esule e spiantato, per mantenersi faceva i ritratti alle ricche dame parigine, che firmava con il suo cognome. Una di queste signore era la moglie del generale Jacques de Guillebon, la madre di Jeanne-Claude.
Il percorso della mostra è diviso in due, sia nella successione cronologica, sia da un punto di vista visivo perché gli ambienti passano dal nero al bianco. Il primo periodo va dal 1958, anno dell’arrivo di Christo a Parigi, al 1964, quando insieme a Jeanne-Claude si trasferisce a New York. I sette anni parigini – scrive Le Monde, «indispensabili per la messa a punto di un sistema di ricerca e analisi dei dati creativi che saranno alla base dell’elaborazione artistica futura» – sono documentati da 80 opere, molte delle quali esposte al pubblico per la prima volta, come ha raccontato Christo in un’intervista ascoltabile in podcast sul sito del museo, nella sezione “Les Visites du Centre Pompidou”. In quegli anni – definiti dal catalogo della mostra «periodo delle opere intimiste in studio» – Christo comincia a sperimentare: lavori sulle superfici degli oggetti, fotomontaggi di monumenti in miniatura. Quando porta Jeanne-Claude nella sua minuscola “chambre de bonne” lei, al posto dei ritratti, troverà le pareti invase da oggetti impacchettati e firmati con il solo nome, Christo.
Sono quelli che vediamo in mostra: sedie, cavalli a dondolo, tavoli, passeggini, tutti avvolti, nati dall’idea di «nascondere un oggetto allo sguardo mettendone in evidenza i contorni, sottolinearne le linee di forza grazie alla corda che li avvolge». Lavori – racconta l’autore – che hanno molto a che fare con la scultura, con la creazione di un’opera d’arte nello spazio, con la sua formazione accademica degli anni di Sofia. Tanti di questi oggetti – ingombranti e che allora nessuno voleva – si sono salvati grazie al fatto che hanno trovato un ricovero in una delle residenze della famiglia di Jeanne-Claude, un castello risalente ai tempi di Enrico IV alle porte di Parigi, come racconta con ironia Christo nella sua intervista.
La mostra prosegue con la seconda parte, sulla gestazione e la realizzazione del Pont- Neuf empaqueté, project pour Paris (1975-1985), la spettacolare istallazione che ha indissolubilmente legato il nome di Christo alla città. A scandire la divisione dei due periodi il bel film dei fratelli Maysles Christo in Paris del 1990 che dura un’ora ed è assolutamente da vedere. È il racconto, minuto per minuto, di come sia stato possibile ottenere tutti i permessi per poter impacchettare il Pont Neuf, una vera lotta politica fra Jacques Chirac, Jack Lang e François Mitterrand e dieci anni di lavoro e di vita della coppia straordinaria. La storia della realizzazione del Pont Neuf è emblematica del lavoro di Christo e Jeanne-Claude. Per trasformare il più antico ponte della capitale francese in un’opera d’arte modernista destinata a durare poco meno di un mese ci sono voluti dieci anni di lotta alla burocrazia francese e ai residenti contrari all’utilizzo del ponte, di studi preparatori accuratissimi e un enorme dispendio di lavoro e di denaro.
L’intera struttura e i suoi 44 lampioni furono avvolti in 440mila metri quadri di tessuto dorato – colore delle pietre di Parigi- su cui furono tirati circa 11mila metri di corda, grazie al lavoro di 300 operai e un costo di 2,5 milioni di dollari. Christo lo descrive così “Il ponte, che nei secoli ha ispirato innumerevoli artisti, diventa lui stesso opera d’arte. Il tessuto che lo avvolge come una pelle. gli dà movimento e cambia di colore a seconda della luce Le persone lo percorrono e lo riscoprono”. La sezione è formata da una collezione di 337 contenuti, tra cui 36 disegni e collage originali, un modello in scala, documenti d’archivio originali, componenti ingegneristici e circa duecento fotografie di Wolfgang Volz. Si tratta di quello che Christo ha definito “Documentation Exhibition”, tutto il lavoro preparatorio, disegni, litografie, modelli in scala, insomma tutto quello che resta dopo che l’opera d’arte viene smontata, messo in mostra.
Ad accogliere il visitatore, su uno sfondo scuro sono i bidoni di rue Visconti, testimoni della prima opera “urbana” della coppia: era l’estate del 1962 e sull’onda della protesta contro il muro di Berlino eretto l’anno precedente, Christo e Jeanne-Claude, in otto ore e senza nessuna autorizzazione, costruiscono la loro “cortina di ferro” alta 4 metri e larga 2,90, usando 89 bidoni impacchettati con tessuto e corde, messi uno sopra all’altro in modo da sbarrare completamente la piccola strada. L’intenzione è quella di coinvolgere e sensibilizzare la strada e l’intero quartiere ma soprattutto è quella di riconfigurare lo spazio. Molti anni più tardi, nel 2012, in un’intervista per il sito della Tate Gallery spiega così l’idea: “noi lavoriamo con lo spazio che generalmente non viene usato per l’arte….Tutto a questo mondo appartiene a qualcuno, non esiste un metro quadro che non sia proprietà di qualcuno. Quello che Jeanne-Claude facciamo è di prendere in prestito quello spazio e di creare un lieve disordine per alcuni giorni”. Fra La cortina di ferro di rue Visconti del 1962 e la London Mastaba del 2018 sul Serpentine Lake con i suoi 7.506 barili galleggianti corre lo stesso filo di visione artistica, energia e volontà indomabile che hanno fatto di Christo e Jeanne-Claude un esempio unico nel mondo dell’arte.