Loredana Lipperini
Ceppo: tre parole-chiave sul racconto /2

Caos, Realismo, Etica

Scrivere racconti fantastici significa confrontarsi con Pan. Ogni storia fantastica, è realista. La missione dell’accompagnare, restando invisibili. Un brano della lectio che Loredana Lipperini, finalista al Premio Ceppo Racconto, terrà a Pistoia il 23 luglio

Il 23 luglio a Pistoia si svolgerà il Premio letterario internazionaleCeppo dedicato in questa 64° edizione al racconto (www.iltempodelceppo.it). La giuria letteraria, diretta da Paolo Fabrizio Iacuzzi, ha assegnato a Loredana Lipperini e al suo “Magia nera” (Bompiani) il Premio Ceppo Selezione Racconto «per aver messo in crisi il reale verso un improvviso scarto che apre un varco al fantastico: l’inspiegabile, che spesso esaudisce desideri (o forse preghiere?), si oppone al quotidiano offrendo uno scampo, una possibilità ulteriore», come scrive il giurato Fulvio Paloscia, che la intervisterà il 23 luglio durante la cerimonia di votazione e premiazione (gli due finalisti sono Massimo Onofri e Federico Pace, ndr). A Loredana Lipperini è stato chiesto di scrivere una breve lecture sul racconto a partire da tre parole chiave da lei stessa individuate.

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Caos
C’è qualcosa di meraviglioso e irripetibile nel grido del marinaio che annuncia la morte di Pan. La nave è nei pressi di Paxos, vi è anzi trascinata dalla corrente perché il vento cade. I passeggeri stanno cenando. Si ode una voce, come di uno che chiami, e chiama Thamus, il pilota egiziano. Lo chiama due volte, a Thamus tace. Alla terza risponde. E la voce dice: «Quando sarai a Palodes, annuncia che il grande Pan è morto». In ogni storia fantastica bisogna fare una scelta, e Thamus sceglie di lasciare al caso, o al caos, la decisione: se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio, se invece avessero trovato bonaccia, avrebbero riferito la notizia. A Palodes non c’era un soffio di vento, non un’onda. Allora Thamos, a gran voce, annunciò, rivolto verso la terra: «Il grande Pan è morto». E dall’isola si levò un pianto collettivo.
Pan è l’unico dio che muore. Ed è l’unico dio in grado di suscitare timore con il suo grido, di sollecitare la carne e l’istinto, certo, ma anche di evocare la morte, essendo morto egli stesso. Chi guarda Pan, cambia irreversibilmente. Eppure, è anche una garanzia, perché impedisce che si liberino gli orrori di cui gli esseri umani sono capaci: è come se, vedendo un hobbit precipitare nel fuoco con un anello magico o un drago che scioglie in un fuoco altrettanto potente un trono di ferro, ci sentissimo rassicurati sull’ordine delle nostre vite, se decidiamo di non superare i confini, o di limitarci a raccontarli. 
Scrivere racconti fantastici significa confrontarsi con Pan, dunque con il caos. Il caos del mito, quello che irrompe in una vita tranquilla e la cambia irrimediabilmente. 

Realismo
Ogni storia fantastica, è realista. Reali sono le emozioni, le paure, la società presenti nella narrazione. Cambia, semplicemente, lo sguardo di chi narra. Nell’introduzione che Stephen King scrive nel 1977 per la raccolta A volte ritornano è detto chiaramente: «Le opere di Edward Albee, di Steinbeck, di Camus, di Faulkner, trattano di paura e di morte, talvolta con orrore; ma in genere questi scrittori mainstream lo fanno in modo più normale, più realistico. Il loro lavoro si colloca entro la cornice del mondo razionale: sono storie che possono accadere. Viaggiano lungo quella linea sotterranea che corre attraverso il mondo esterno. Ci sono altri autori (James Joyce, di nuovo Faulkner, poeti come T.S. Eliot, Sylvia Plath, Anne Sexton) la cui opera si colloca nella terra dell’inconsapevolezza simbolica. Viaggiano sulla sotterranea che corre attraverso il paesaggio interno. Ma chi scrive racconti dell’orrore, quando coglie nel segno, è quasi sempre al terminal dove le due linee fanno capo».
Raccontare significa restituire quel che si respira: non importa la forma che si sceglie, conta lo spirito del tempo che sappiamo cogliere. Nel 1968 George A. Romero gira La notte dei morti viventi, cui dobbiamo l’immaginario ancora perdurante dello zombie. Il 1968 fu l’anno del massacro di Mỹ Lai, 504 civili inermi torturati e stuprati dai soldati dell’esercito statunitense. Lawrence Coburn, uno di loro, disse: «MỹLai… è come se i morti avessero preso ad afferrare i vivi. Come se non ci fosse scampo alla nostra, alla mia maledizione».

Etica
Il racconto fantastico, per me, è sempre etico. Ogni scelta, ogni patto col diavolo o con gli angeli contiene una decisione su quale strada seguire. Questo è il bivio su cui porto i miei personaggi: non sempre scelgono, ovviamente, la via che io riterrei giusta. L’idea narrativa che ho in mente, comunque venga declinata, somiglia infine a quel che avvenne durante la spedizione Shackleton.Il 1° agosto 1914 Ernest Henry Shackleton partì da Londra per tentare la traversata antartica con 27 uomini. Il 15 aprile 1915, giorno 498mo della spedizione, l’equipaggio, persa la nave, è bloccato sull’isola Elephant, lontana da ogni rotta. Shackleton ha un’idea, disperata e folle: sceglie la scialuppa migliore e decide di raggiungere, con cinque uomini, la Georgia del Sud, lontana 1600 chilometri. Nonostante le tempeste, arriva il 20 maggio a Strommess. Da lì organizza il soccorso degli uomini rimasti a Elephant che furono tratti in salvo il 30 agosto del 1916. Sopravvissero tutti. Passa qualche anno. Shackleton racconta la storia della spedizione. C’è un passo in particolare delle sue memorie che colpisce: «Io so che durante quella lunga e terribile marcia di trentasei ore oltre le montagne senza nome e i ghiacciai della Georgia del Sud mi è spesso sembrato che fossimo in quattro, non tre. Non ne parlai ai compagni sul momento, ma più tardi Worsley mi disse: Capo, avevo la curiosa sensazione che durante la marcia ci fosse un’altra persona con noi. Crean mi confessò la stessa impressione».
Autunno, 1922, viene pubblicato un poemetto. Si chiama La terra desolata. Il suo autore, Thomas Stearn Eliot, si ispira alle memorie di Shackleton. Si procede, nella terra desolata, con una precisa sensazione. La sensazione che ci sia, con noi, qualcun altro: «Chi è quel terzo che cammina sempre al tuo fianco? / Quando conto, ci siamo soltanto tu e io, insieme / Ma quando guardo avanti verso il sentiero bianco / C’è sempre un altro a camminarti al fianco / Che scivola avvolto in un mantello bruno, incappucciato / Non so se sia uomo o donna. / – Ma chi è quello che ti sta dall’altra parte?».
Per me raccontare è accompagnare, restando invisibili. Non abbiamo che questo. Non possiamo fermare la morte, impedire le malattie (non del tutto, non sempre), cambiare il destino che ci riguarda come umani: ma possiamo raccontare. E nel racconto essere terzi compagni o visibili compagni. Ma non solo per loro. Per noi. Per rimanere quelli che vogliamo essere. Per incamminarci, infine, anche scalando montagne di neve. Come scrisse Eliot in un’altra opera, Il canto d’amore di Alfred Prufrock, è questo l’invito, questo il primo gesto:«Allora andiamo, tu ed io,/ Quando la sera si stende contro il cielo».

(A cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, presidente del Premio Ceppo)

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