Leopoldo Carlesimo
Una storia inedita

Anna Clara Roghùn

«I suoi sforzi erano tutti orientati a cercare una lettura egoistica, affidabile. Di chi altro avrebbe dovuto preoccuparsi, se non di se stessa? E quali orientamenti avrebbe dovuto seguire, se non i suoi desideri?»

Non ricordava più esattamente quando aveva cominciato a pensarci. Ma era persuasa che quell’idea le si fosse insinuata nel cervello fin dal primo momento. Anzi, forse le era apparsa fugacemente ancor prima che la cosa accadesse. Per cui lasciarla avvenire, poi, fu in qualche misura un atto deliberato.

Tuttavia non era questo il punto. Il punto era cosa fare. Non gliene avrebbe parlato, o almeno non subito. Aveva bisogno di tempo per esaminare i dettagli. I dettagli avevano la loro importanza. Metterli a fuoco l’avrebbe aiutata a prendere una decisione. Questo voleva dire che in realtà una decisione l’aveva già presa. Non gli avrebbe permesso di influenzarla.

Certo, non lì in Tajikistan. Un breve rientro sanitario in Italia, ne aveva tutto il diritto. Chissà perché, poi, era convinta che lui si sarebbe opposto. Non avrebbe dovuto. Ma come sempre, nella loro coppia, giocavano a parti invertite. Però continuava a divagare, continuava a divagare…  

Toni rientrò piuttosto tardi quella sera. Avevano avuto dei problemi fuori, con la pioggia. Una pioggia travolgente, la prima vera tempesta della stagione. Fiumi di fango ovunque. Le frane e il vento avevano divelto tettoie di lamiera, in officina, ed era stato necessario mobilitare le gru e mettere insieme una squadra d’emergenza per turare le falle prima che l’acqua inondasse i comparti interni. Coi motori sbiellati e le pance aperte dei dozer sotto le capriate squarciate. Non potevano certo abbandonarli al diluvio tutta la notte.

Beh, aveva fatto tardi, era sporco di grasso d’officina e fango, bagnato fradicio dalla testa ai piedi, stanco morto, infreddolito e ancora coi nervi a fior di pelle per lo sforzo di far fronte all’emergenza imprevista, oltre che affamato per aver saltato la cena… Insomma, le condizioni ideali per parlargliene. La salutò con un grugnito, si spogliò e si cacciò nel bagno.

Bea era stesa sul letto, in vestaglia. Ascoltò lo scroscio prolungato della doccia che batteva contro la parete sottile di lamierino e coibentante del prefabbricato. Poi la raggiunse e fecero l’amore. Sì, sì, volle fare l’amore! Proprio quella sera… Lei non gli si negò. Fece del suo meglio, anche se aveva la testa altrove e lui lo notò. Commentò poi, mentre s’accendeva una sigaretta, e questo diede inizio al discorso. Il sesso aveva fatto da traino, ma forse l’aveva anche un po’ calmato.

Il sesso, in verità, non era stato dei migliori, comprensibilmente lei era un po’ distratta. Lui s’innervosì di nuovo, quando seppe. S’alzò e camminò su e giù per la stanza, con quella sigaretta tra le mani che rischiava ogni momento di bruciare una tenda, un lenzuolo, uno degli indumenti ammucchiati sulla sedia.

Lei gli disse quel che voleva fare e avrebbe dovuto essere un sollievo per lui sentirlo. Invece, esattamente come Bea aveva previsto, prese subito la posizione contraria. Non la sorprendeva mai, non gli riusciva proprio. Trasparente come l’acqua. Noiosamente, la risposta che s’aspettava da lui. Quella che avrebbe dovuto far felice ogni donna. Ogni altra donna. Di buono c’era che era solo la sua prima risposta. Ancora fragile, si sarebbe infranta contro la sua determinazione.

Lei spiegò gli argomenti. Tutti logici, ben ordinati. Avevano solo vent’anni, alla fine il tutto si riduceva a questo. Quando Toni non seppe più che dire e che fare e la cicca gli si spense tra le mani, gli venne fame. Curioso, si disse Bea, aveva una gran fame anche lei. Si vestirono e fecero quei quattro passi fino alla mensa, sotto la pioggia battente, a vedere se per caso la cena di quelli del turno di notte fosse già in tavola. Avrebbero potuto fregarne un paio di razioni ai nottambuli.

Fango dappertutto. Correvano abbracciati sotto lo stesso ombrello, stampando orme nella laterite molle, lungo il percorso che andava dalla baracca alloggi all’edificio centrale dei servizi: mensa, club, cucine, spaccio, lavanderia. S’infilarono coi cappucci delle cerate fradici sotto la tettoia della mensa deserta.

La sala era aperta, ma ancora vuota, troppo presto per quelli del secondo turno, che fanno il break-pasto da mezzanotte all’una. Però il banco scaldavivande era già imbandito e i servitori erano in posizione dietro la lastra di plexiglas. Si munirono di un vassoio a testa, tovaglietta di carta, posate, bicchieri. E si fecero servire una porzione abbondante di pasta al forno, lui, e una minestra di verdura, lei. Presero una birra a testa e si scelsero un tavolo lontano dal banco, più o meno a metà della sala deserta.

Poco prima, a letto, le pareva di aver liquidato la questione. Ma ora, seduti una di fronte all’altro, non c’era altro di cui parlare. E Toni tornò sull’argomento. Bea non riuscì a scansarlo. I suoi assalti, irrazionali e oscuri, aprirono subito qualche breccia nell’apparato di difese che aveva predisposto. E lei subiva qualche scossone emotivo di troppo.

Ripeté con ordine le sue ragioni. Cioè, con sempre maggiore evidenza, i suoi luoghi comuni. Ma toccava a lei decidere, dopotutto. I motivi erano evidenti e le conseguenze ovvie. Solo che Toni non si dava per vinto. Reagiva d’impulso, testardamente, accanitamente. Lei non intendeva certo affrontare la questione fidandosi di romantici impulsi. I suoi sforzi erano tutti orientati a cercare una lettura egoistica, affidabile. Di chi altro avrebbe dovuto preoccuparsi, se non di se stessa? E quali orientamenti avrebbe dovuto seguire, se non i suoi desideri? Sicché gli attacchi di lui trovarono nei suoi desideri e nel suo egoismo il loro bersaglio.

Così, la discussione divergeva e saliva di tono, e a metà della sua pasta al forno e della minestra di lei si scoprirono a dirsele addosso, sia pur con voce soffocata, spaventati dal rimbombo delle loro stesse parole. Il personale tajiko schierato dietro il banco scaldavivande li osservava divertito. Non capivano l’italiano, per loro era solo un litigio d’innamorati, una baruffa tra ragazzi.

Fu Bea a interromperla. S’alzò e s’avviò verso l’uscita, con un impeto che avrebbe voluto apparisse di rabbia, ma le parve – più onestamente – di paura. Fuggiva da lui, prima che riuscisse a incastrarla. Imboccò la porta, tirò su il cappuccio e sparì nella pioggia.

Il primo a far entrare un terzo nella questione fu Toni. Una volta abbandonato da Bea, s’infilò nel club. Aveva bisogno di bere. S’interrogò a lungo. Sarebbe stato ancora disposto ad andare fino in fondo? Sì, e non solo perché sapeva che altrimenti la loro storia finiva lì. Non era Bea che l’attirava, ma quella novità, quella prospettiva che gli si apriva inaspettatamente davanti. Curioso che dei due fosse lui a pensarla così. Qualcosa che disegnasse un limite davanti a sé, l’obbligasse a fare sul serio.

Il valore positivo del limite, gliel’aveva insegnato il lavoro. Da un po’ di tempo – non molto – sapeva che nulla vale quanto l’esplorazione di quello che c’è intorno. Misurarsi con qualcosa, ti piaccia o no. Una cosa che Bea non aveva ancora scoperto. Era ancora in quella fase in cui ogni legame è un laccio da strappare, ogni barriera un ostacolo da abbattere. Volatile, coi suoi sogni e le sue fantasie. Ma forse questo avrebbe potuto cambiarla. Quella scalmanata. Calmarla, rasserenerla. Avrebbe dovuto essere naturalmente così, più in lei che in lui. Ma la natura, con lui e Bea, sembrava funzionare a rovescio.

Intanto, però, s’accomodò sullo sgabello girevole del bancone e ordinò un doppio cognac. Lo bevve d’un fiato. S’accese una sigaretta e ne ordinò un secondo. Mancava poco alla mezzanotte, il club stava per chiudere, sui tavolini deserti mazzi di carte bisunte erano sparsi tra posacenere pieni di cicche. Vuoti di birra disseminati in giro, stecche mollate sul biliardo anziché riposte ordinatamente nella rastrelliera. Linaldo, unico presente oltre al barman, si sedette sullo sgabello accanto al suo.

“Bevi, stasera.”

“Già,” disse Toni.

“Guai con Bea?”

“Che ne sai?”

“V’hanno visti litigare a mensa, poco fa. Lo sai che vengono a dirmi tutto.”

“Beh… e che ne sanno? Niente di niente.”

“Hai ragione,” disse Linaldo.

Fece un cenno al barman di versarne uno per sé e uno per Toni. E dopo il terzo cognac, chissà perché Toni glielo disse. Non era così ubriaco. Ma gli venne voglia di farlo. A quel coriaceo cinquantenne senza figli che pensava solo al lavoro e alla caccia. Che s’aspettava da lui? Linaldo non commentò. Non toccò proprio l’argomento. L’informò semplicemente che sarebbe andato a caccia sul Pamir, quella domenica.

“Dopo quel che è successo a Rachid, sono rimasto solo. Mi serve un compagno,” disse. Pareva una proposta.

“Non ho mai cacciato,” disse Toni.

“T’insegno io.”

“Non ho neanche un fucile.”

“Io ne ho due. All’inizio devi solo guardare.”

Toni restò in silenzio.

“Allora d’accordo, domenica mattina all’alba,” concluse Linaldo.

Dopodiché il barman protestò che era passata la mezzanotte da dieci minuti buoni e doveva chiudere.

Per tutto il resto della settimana dormirono ciascuno nel suo alloggio, Toni e Bea. Avevano una stanza per uno, nelle stecche scapoli della zona B del campo, quelle a schiera da otto posti: camera piccola, bagno e letto a una piazza e mezza. Nel letto ci stavano abbastanza comodi anche in due e da un po’ di tempo lo condividevano, indifferentemente nell’alloggio di lei o in quello di lui. Però, vista la situazione, le due notti seguenti dormirono più comodi. Separati.

Non s’evitarono del tutto, anche se c’era quella cosa tra loro. Si videro la mattina, prima di attaccare, e poi la sera, a fine turno. In nessuna di quelle occasioni tornarono sull’argomento. Bea pensava che le convenisse starne alla larga. Aveva già detto tutto quel che aveva da dire. Per lei era una questione chiusa. Anche perché sentiva quella strana fragilità crescerle dentro, lei sempre così sicura. Temeva che parlarne l’avrebbe esposta. E invece no, era decisa. Non significava niente per lei. E se questo avesse voluto dire chiuderla con Toni, beh allora d’accordo. Sipario. Non sapeva che farsene di un uomo che non sa prendere la vita sportivamente.

Mentre si ripeteva questo decalogo, Toni le disse che domenica sarebbe andato a caccia con Linaldo. E Bea capì che gliene aveva parlato.

Non albeggiava ancora quando Linaldo e Toni lasciarono il campo a bordo del pick-up. Giusto un tenue chiarore, le prime tracce d’aurora sopra al crinale che separa la valle del Vakhsh dalle alture che salgono verso il Pamir.

Schiarì velocemente. La strada sterrata si snodava curva dopo curva sulle pendici dell’altopiano. Man mano che saliva in quota, la vegetazione si faceva più rada. Il sole apparve al di sopra di cigli rocciosi che delimitavano una valle ampia e profonda. Ristagnava dell’umidità, giù in basso. Bagnava l’erba e i cespugli nel fondovalle. Evaporando, l’acqua si condensava in fasce di nebbia che galleggiavano a mezz’altezza, là dove strati più freddi d’aria la ghermivano. Prima che il sole, alzandosi e facendosi più caldo, la dissolvesse di nuovo.  

Parcheggiarono il pick-up in una piazzola a bordo strada. Poco lontano un sentiero tagliava la macchia e proseguiva fino al limite del bosco. Oltre il bosco le rocce e i canaloni di ghiaia cambiavano pendenza, salendo più ripidi. Di lì in poi s’era allo scoperto. Nessun trucco mimetico, nessun nascondiglio. L’esito di inseguimenti e fughe era deciso dalle distanze e dal calcolo più o meno efficace dei percorsi. Era una caccia nuda, sia per i predatori che per le prede.

Usarono i binocoli subito prima di uscire dal folto del bosco. Il piccolo branco di argali pascolava sul pendio erboso, l’ultima prateria al di sotto del canalone. Più in là c’era un ripido dirupo di ghiaia lungo il quale le bestie sarebbero rimaste brevemente esposte, prima di raggiungere la forcella tra le due pareti di roccia e sparire sul versante opposto.

Cercarono di avvicinarsi marciando al margine degli alberi, protetti dai rami cadenti, e tenendo costantemente d’occhio le bestie. Se si fossero innervosite per qualche loro errore – un rumore più forte, una folata di vento che portasse l’odore fin laggiù – o semplicemente per un’inquietudine istintiva dell’animale, avrebbero dovuto uscire allo scoperto e tentare il colpo, prima di perderle. Ma fintantoché erano quiete e brucavano, s’impegnarono in un lungo giro costeggiando gli alberi, per avvicinarsi di un centinaio di metri. A quel punto il collimatore dei fucili da caccia avrebbe dato loro buone possibilità.  

Le sembrò che lui avesse in qualche modo violato un patto, parlandone. Alterava illecitamente gli equilibri. E quando quella domenica mattina si recò da Esther, non aveva in mente un piano preciso, ma era come in cerca di un contrappeso che bilanciasse la manovra di lui.

Non trovò Esther in casa. La domestica che stava pulendo l’alloggio le disse, in un russo torrenziale in cui emergevano come scogli rare storpiature di parole inglesi – termini-faro, però; essenziali per capire: store (che lei pronunciava ‘stuurr’) e work (che lei pronunciava ‘veerk’) – che Esther era andata al lavoro anche se era domenica. Era in magazzino. Lo faceva spesso, quando le si accumulava dell’arretrato o aveva bisogno di qualche ora tranquilla per riordinare l’archivio. O i pensieri. Non c’era posto dove stesse meglio che nel suo magazzino, le aveva detto.   

Fu lì che la trovò. La scorse oltre la finestra, la testa china su un mucchio di faldoni aperti sparsi sopra la scrivania. S’era messa gli occhiali. Pareva più brutta e più vecchia. Molto più vecchia, concentrata su quelle scartoffie, e per nulla femminile. Quella era Esther, dunque, colta alla sprovvista in una posa da lavoro: non s’era truccata né pettinata. Bea l’osservò per qualche istante oltre il vetro, prima di bussare. Le aprì. Non fece in tempo a ricomporsi. Ebbero un breve scambio di convenevoli ed Esther la fece accomodare nel suo ufficio e le offrì un tè. Bea l’accettò, per dare un pretesto e una forma a quel che aveva da dire.

Quanto a tè, Esther aveva il suo rituale e questo richiese tempo. Lo fece forte scuro e molto dolce, coi rametti di menta ficcati nel collo allungato della teiera, come usa in Maghreb. Ma lo servì in una specie di samovar, alla maniera russa. Prese tutto il tempo che le occorreva e ne fece buon uso. Quando riapparve, quel pensiero e quell’occupazione l’avevano rimessa in sesto più di quanto avrebbe potuto una veloce sessione di cosmesi – qualche strato di creme, un’incipriata e una pettinata ai capelli scomposti. Il nuovo volto di Esther era sicuro e guardingo, la pelle flaccida s’era rassodata e aveva riacquistato luminosità; anche lo sguardo s’era asciugato, non era più acquoso e disperso, ma penetrante e vigile, raccolto attorno all’iride.

Bea disse: “Sai che Toni è andato a caccia con Linaldo, stamane?”

“Sì,” disse Esther. “Linaldo me l’ha detto. Non sapevo che Toni s’interessasse alla caccia.”

“Neanch’io,” disse Bea, più in fretta e con un tono di voce più stridulo di quanto avrebbe voluto.

“E’ solo che non mi sembra il tipo,” disse Esther.

“Oh, certo. Sono sicura che non varrà molto come compagno di caccia,” disse Bea, cercando di tenere a posto le mani, che avevano cominciato a torcersi.

Esther le guardò proprio le mani.

“Non so perché Linaldo se l’è portato dietro,” disse, Bea, con quel tono di voce che andava sempre più fuori controllo. “Gli farà rimpiangere Rachid,” aggiunse. E non aveva idea del perché l’avesse detto.

“Già,” disse Esther pensierosa, squadrandola. “E’ più o meno quel che intendevo dire…”

Poi la tazza le cadde dalle mani e Bea non riuscì più a trattenersi. Le mani tremavano e lei stessa tremava e sentì un gran calore affluirle al viso e poi seppe che era rigato di lacrime. Gli occhi continuavano a riempirsene… E quel liquido appiccicoso che grondava dalla parte bassa del mento probabilmente non conteneva solo lacrime, ma anche qualcosa di più denso che colava dal naso. Inoltre era quasi certamente lei a emettere quei singhiozzanti mugolii, più animaleschi che umani, che le sue orecchie registravano come unico rumore dentro la stanza…

Se fu sorpresa, Esther non lo diede a vedere. Non s’avvicinò, non la prese tra le braccia, non s’arrischiò a consolarla. Se provò l’impulso di farlo, lo respinse. Dava l’idea di non volersi immischiare. O forse non volle aggiungere la sua partecipazione emotiva, ce n’era già troppa.

“La caccia non c’entra, giusto?” Disse.

Uno riuscirono a stenderlo. Un bel maschio, il più grosso, probabilmente il capobranco. Certo, dopo quel primo colpo andato a segno non ebbero alcuna possibilità di piazzarne altri. Il resto del branco si dileguò veloce oltre la forcella e il colpo che seguì, sparato da Toni, fu solo la partecipazione inutile di un principiante. Quello di Linaldo aveva spezzato la spalla alla bestia che ora era a terra e scalciava, senza riuscire a rialzarsi. Diede loro tutto il tempo di salire lungo il costone. Quando furono alla distanza giusta, Linaldo fece un segno a Toni e lasciò il colpo a lui. Toni imbracciò il fucile e sparò. L’argali ebbe un rantolo e s’immobilizzò.

Poi ebbero il loro daffare per salire fin lassù col pick-up. A marce ridotte, quelle trappole s’arrampicavano pressoché ovunque, ma ci volle del tempo, e un lungo giro che seguisse a zig-zag le pendenze giuste, per raggiungere la carcassa della bestia.

Mentre guidava, gli disse: “Perché avevi pensato una sciocchezza simile?”

“Non c’è un perché, è capitato,” disse Toni. “Non riguarda più il passato, ma il futuro. Fissa qualcosa e non l’ho scelto io. Mi pareva il modo migliore.”

“Sei giovane. Non lo sai qual è il modo migliore. Non sai niente.”

“Beh, mi sa che hai ragione. Ma poteva essere una buona occasione,” disse Toni. “M’era capitata questa, di mano. Perché non andare a vedere, mi sono detto?”

“Certo. Ne hai, di cose da imparare. A sparare per esempio. T’insegno io.”

No, la caccia non c’entrava.

Quando Bea smise di lottare contro quel disastro, finalmente sussulti e mugolii si placarono e adesso restava solo quel rossore sulla pelle congestionata, così imbarazzante, che ci metteva un sacco di tempo a riassorbirsi. Fu in quello stato che glielo disse, tirando su col naso.

Esther non si diede nessuna pena delle sue lacrime. Le mise in mano un’altra tazza di tè e bevve un sorso del suo.

“Sai, Bea… da quando sei arrivata in cantiere, non hai mai smesso di cacciarti nei guai,” le disse.

In realtà, non pensava a Bea. Pensava a se stessa. E decise che non aveva nessuna, nessunissima importanza la tempesta di scorie intime che la confessione di quella ragazzina stava sollevando dentro di lei. Niente di personale, doveva impedire a quella roba di interferire. Era solo un banale consiglio da dare a un’estranea di cui non le importava granché, una giovane inesperta e presuntuosa, non particolarmente simpatica e molto più fragile di quanto aveva voluto far credere a tutti, come aveva appena dimostrato.  

“Non hai fatto che dare scandalo,” le disse Esther. “Siamo tutte un po’ stanche di te… Parlo delle altre donne del cantiere.”

Adesso Esther conosceva due o tre segreti di lei. E non gliene importava niente. Non avevano niente a che fare – niente di niente – con quel che era successo a lei secoli prima.

“Prima organizzi quelle gite nei long week-end di paga,” proseguì. “Prendendoti un pick-up e trascinando qualcuno dei ragazzi in giro a esplorare queste tetre montagne, lasciandoci tutti col fiato sospeso in attesa del vostro ritorno. Poi passi da un uomo all’altro come se niente fosse; sei l’unica italiana che frequenta quei posti, a Obi Garm, dove vanno a cercarsi le loro puttane. Da un po’ di tempo finalmente ti stabilizzi con Toni, un bravo ragazzo, ti capita questa fortuna, e ti lamenti…”

La guardò. Non dava ancora segni di ribellione. Docile come un cucciolo spaventato. Esther proseguì:

“Non te lo meriti. No. E e non ti meriti neppure un buon consiglio. Ma te lo do lo stesso.”

Stavolta, un fremito sul viso di Bea Esther lo colse. Ma tirò dritto, ormai il più era fatto.

 “Tu sei una che si prende dei rischi, no? Una arrabbiata, in cerca di non so che… Altrimenti perché una ragazza romana di buona famiglia con un diploma in tasca, anziché infilarsi in qualche università del cazzo, viene a cacciarsi qui in Tajikistan sul cantiere di una diga? Beh, visto che ti piace il rischio, perché non lo fai? Quanto a rischio, te l’assicuro, non è male… Forse però ne vale la pena, e questo per te potrebbe essere un difetto…”

“Tu vuoi strafare,” disse Linaldo. “Troppo zelo. Come con quel cofferdam. Mai troppo zelo. E’ l’errore di voi ragazzi. Non serve a niente. Non cambia le cose. Produce solo del rumore in più.”

Imbracarono la carcassa con le funi e appoggiarono alla sponda ribaltata del cassone lo scivolo di legno, fatto con quattro murali da cantiere inchiodati assieme. Agganciarono il tirfort al montante, sopra la cabina, e ci legarono l’estremità della fune. Quando misero in tensione il tirfort, il pick-up s’inclinò e le ruote fecero un mezzo giro, né il freno a mano tirato né la marcia ingranata bastarono a fermarle. Sicché piazzarono delle grosse pietre dietro le gomme e così bloccata la macchina resse. La leva del tirfort era dura e dovettero mettercisi in due, a spingere e tirare, finché po’ alla volta la carcassa si mosse e quando ebbe assunto la posizione di minor resistenza salì docilmente lungo il piano inclinato, trainata dal tirfort, scivolando sopra le tavole fino alla sponda del cassone.

Usarono le stesse corde con cui l’avevano issata per legarla bene ai ganci laterali e al montante. Era una bella bestia, riempiva tutto il pick-up, con le corna che sporgevano alte sopra il tettuccio della cabina e il culo che spingeva contro la ribaltina della sponda chiusa.

“Comunque, se proprio lo vuoi fare, fallo. Sappi però che è una cosa cruenta. Più cruenta di quella che hai fatto oggi. Ha qualcosa a che fare con la castrazione. Hai sentito la storia di quello che li divorava, e finì castrato dall’unico che non divorò.”

“Che stronzate!” Pensò Toni tra sé, mentre legavano l’argali al cassone. Ma a Linaldo disse: “Fatto! Beh, hai trovato un nuovo compagno di caccia…”

Quando Bea se ne andò, un’oretta dopo, non piangeva più. Camminava ritta, le braccia tese lungo i fianchi, i pugni stretti. Il volto serio e rigido non mostrava tracce d’emozione. Esther l’osservò allontanarsi, attraverso la finestra della baracca del magazzino, mentre finiva di sorbire il tè.

“Quella scemetta,” si disse. “Aveva solo bisogno che qualcuno l’autorizzasse a uscire dal personaggio che s’era calata addosso. Beh, autorizzata. Che le desse una spintarella per entrare nel mondo reale. Ecco fatto, benvenuta.”

Così, quando finì quella domenica, e Toni e Bea si ritrovarono daccapo alle prese con quel problema, i termini erano un po’ cambiati. In modo non del tutto volontario, attraverso i loro pregiudizi e i loro rancori, forse Linaldo ed Esther li avevano aiutati a risolverlo. Ora avrebbe potuto davvero venire al mondo, quella mascotte del cantiere. Avrebbero persino potuto chiamarla Roghùn, magari anche solo come secondo o terzo nome.

Qualche mese dopo Bea rientrò in Italia. La bambina nacque a Roma, in autunno. La chiamarono Anna Clara Roghùn.


Accanto al titolo, “Ritratto Maya con la bambola” (1938) di Pablo Picasso

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