Pier Mario Fasanotti
A proposito di “Tre vivi, tre morti”

Firenze georgiana

Trentacinquenne georgiana, Ruska Jorjoliani ha scritto un romanzo ironico e amaro sull'incomunicabilità. Ne è protagonista una improbabile coppia di professori sbadati nella Firenze degli anni Cinquanta. Un libro tutto da scoprire

Dopo un sogno in cui vide suo padre, di spalle, mentre scalfiva la corteccia di un salice, si svegliò bruscamente. Modesto Pacini, docente in un liceo di Firenze, si mise a esaminare la posta. Era ancora l’alba, sua moglie Aurora, preside nella stessa città, russava. Era una busta gialla, anonima. Il prenderla in mano lo rese subito ansioso. L’aprì. Conteneva un insulto oltre che una poco velata minaccia: «Gentile Professore, non creda a certi poeti che dicono che la verità sia vana quanto la menzogna. Nella piena degli anni non sempre si può andare a bratto (movimento del remo che fa andare una gondola in modo elicoidale, ndr) con un remo sgangherato, perché allo spoglio dei nomi verrà tutto a galla, le larve e gli antichi errori. E quei morti un nome, anche se dimenticato, l’avranno, mentre su di Lei scenderà un grande silenzio. Quanto a quell’unico remo, grazie al quale si è spostato da una sponda all’altra, marcirà abbandonato in una secca, come tutte le cose che sono fatte dall’acqua e da essa sono disfatte. È per questo che Le dico: prima ancora di essere un assassino, Lei è un imbecille».

Comincia così il tragicomico romanzo di Ruska Jorjoliani, nata a Mestia, in Georgia, nel 1985, intitolato Tre vivi, tre morti, (Voland editore, 196 pg., 16 euro).  Visibilmente esterrefatto, Modesto Pacini è sfiorato dal dubbio di non aver capito e allora consulta un’enciclopedia: «Le caratteristiche dell’imbecille. Tondissima la parte posteriore della testa; collo breve; fronte grande, tonda, carnosa…estremità mal fatte; faccia piena e grande; movimenti goffi». Il lettore si chiederà immediatamente da dove sia sbucata quell’enciclopedia (Il Piccolo Lavater), che non menziona affatto le peculiarità mentali dell’imbecille. «Ehi, Aurora, senti un po’». Le chiede se abbia la faccia piena e grande. La donna risponde di non aver sentito, lui si rassegna ponendo il libro sulla scrivania, e obbedisce alla moglie che annuncia che il caffè è pronto. Attorno al tavolo della cucina Aurora fa domande sulla busta gialla e chiede che cosa sia. Risposta di Modesto: «Un’averla». Lei ignora il significato e sorride sopra la tazza fumante. Modesto le spiega che si tratta di un uccello che quando agguanta una preda, la guarda negli occhi, ma non la consuma subito. E la giornata comincia a scorrere come se nulla di strano fosse avvenuto. La donna però ha il sentore che qualcosa non vada per il verso giusto, ma più di tanto non indaga.

Ma comici sono i minuti che precedono all’uscita di casa. La donna gli lancia l’asciugamano, sulla soglia del bagno. Lui l’afferra: evento inconsueto perché, spiega l’autrice, Modesto era il campione dell’indecisione e la sua filosofia era “scansare”. L’asciugamano lo afferra, e non è cosa consueta. «Ma tu guarda» ridacchia la moglie «il signor Pacini che afferra un oggetto». Dopo uno scambio di battute sulle cose che, lanciate, il più delle volte cadono a terra, il professore si siede sul bordo del letto, con il corpo ancora bagnato e pensa: «Io non ci sto capendo niente».

Anche la professoressa Aurora ha le sue stranezze. Prima di afferrare la cornetta del telefono (di bachelite nero; siamo sul finire degli anni Cinquanta) lo fa squillare tre volte. Quando s’era sposata non aveva mai posto l’attenzione sul matrimonio in sé. Quando accompagnò suo padre alla stazione, vide “la chimera etrusca” chiedendo a sé e al padre come mai avessero chiamato quell’animale in questo modo. Il babbo, continuando a camminare verso la carrozza, chiede: «Quale animale?». «La chimera, non la ricordi più?». «Ah già». Aurora insiste: leone, capra e serpente uniti in un unico corpo. Da quel giorno in stazione non si incontrarono mai più. Terminati gli studi magistrali, la ragazza è convinta di essere a una svolta, che le bastasse leggere i segni e avrebbe capito tutto.

Torniamo al giorno dell’asciugamano. Aurora, ancora a casa, riceve la telefonata della preside dove insegna il marito, avvertendola che si comporta “in modo bizzarro”. Reazione nulla o quasi. Poi esce e camminando osserva le stesse cose di ogni giorno. Ma a un certo punto s’appoggia a un muro e scivola a terra, presa da un improvviso malore. La soccorrono, ma lei sdrammatizza. Al marito racconterà così l’episodio: «Ho chiuso gli occhi e d’un tratto ho visto delle immagini della mia infanzia a una insolita distanza, né vicine né lontane». Mmh, fa Modesto, allora lei si gira verso il marito e chiede se ha presente lo stetoscopio. Lui continua a fissare la strada: «In questo momento non ho presente nulla». Lei si irrita e dice che è inutile parlargli quando «non è in vena». Ma lo è mai, ci chiediamo noi? Tra lui e lei vincono sempre l’incomunicabilità, l’equivoco, il nonsense. E nulla scuote questo ménage, anche quando, in tempi diversi, lui se ne andrà di casa per un certo periodo affascinato da una cantante lirica, e lei frequenta un amante, col quale pare ripetersi lo schema dell’incomunicabilità. Che è il vero baricentro, a parte il grottesco, della narrazione di Ruska Jorjolani.

Modesto cercava di essere simpatico e ben voluto dai colleghi. Decide che la strada migliore sia quello della barzelletta. «S’imbatteva però» scrive l’autrice «nelle siepi di silenzio o al massimo in qualche cancello chiuso di sorriso, non si sa se per caso o per carità cristiana». Si era accorto un giorno che gli amici ridevano, ma capì facilmente che era per prenderlo in giro. La “porta” della comicità rimaneva sbarrata, e «gli restituiva l’immagine già nota di sé e della triste giornata dietro le sue spalle». Ma il Pacini vuole una rivincita, e una settimana più tardi chiede a un collega se voglia sentire una barzelletta. Sentiamo, dice quello, molto scettico. Modesto la racconta: «È su un professore di matematica… ehm… che non riesce a contare il numero delle corna che gli fa la moglie». Nessuna reazione, almeno quella sulla quale aveva scommesso. Il collega se ne va dicendo che gli avrebbe risposto un’altra volta al quesito. Anche Pacini entra in classe, ma si accorge d’avere i movimenti scoordinati e “gli arti attorcigliati”. Cade, i ragazzi ridono, lui minimizza. Comincia la lezione e li assicura: «Grazie, sto bane. Provarò a screvare sulla levegna». Imbarazzo e ilarità degli alunni. Modesto, sottraendo lo sguardo dalla lavagna, si gira e esce dall’aula.

Nel frattempo Aurora telefona a Luciano, l’amante, e gli annuncia di essere incinta. E lui: «Chi dei due?». Risposta: «Uno dei due».

Un pomeriggio Modesto, fischiettando e con le mani in tasca, s’inoltra «nei quartieri di una Firenze tanto vecchia e immemore che poco mancava ne smarrisse persino i segni, così da apparire appena storta». Si ferma davanti a una vetrina, osserva attentamente la merce esposta ed entra. Il commesso lo informa che gli stivali che Modesto ha adocchiato sono di capretto. «Li prendo». Le scatole si aprono una dietro l’altra: non c’è la misura giusta. Allora il commesso afferra lo stivale, l’unico, in vetrina. Gli va largo. Poi segue il consiglio dell’impiegato: calzi quello che è in vetrina e uno di una misura inferiore, basta imbottirlo. Modesto fa qualche passo e racconta che gli sono congelati i mignoli. Allora il commesso gli porge un altro stivale. «Intendevo i mignoli» ribatte il professor Pacini. Che, appena uscito dal negozio ha l’impressione che qualcuno lo aspetti dietro l’angolo. Con le vecchie scarpe avvolte in carta velina, s’imbuca nel negozio di un fotografo. Si siede su una poltrona damascata. Il fotografo, anziano e sordo, crede che il cliente desideri più “scena” e allora gli porge una bambola di pannolenci. Finito tutto, Modesto sta per uscire quando si blocca e chiede di comprare il cavalletto. Lascia il negozio chiedendosi dove poter trovare una tela, i colori e qualche pennarello.

Le vicende si accavallano col passare del tempo. Riemerge un episodio della guerra, compare la Russia ma anche l’Abruzzo. Vicende, pur importanti, ma sulle quali non insistiamo. Tornata, si fa per dire, la normalità, storica e familiare, pare che il cerchio si chiuda quando Modesto porta a casa un grosso scatolone, che depone davanti alla porta. Con i piedi lo spinge nell’appartamento. Vuole fare una sorpresa ad Aurora, che volta le spalle lasciando il portone socchiuso. Questo l’annuncio di Modesto: «Avremo un televisore…questa è una notizia…come dire…meravigliosa». Davvero? chiede la donna, che annuncia di essere incinta. Il marito tenta di abbracciarla, lei non reagisce affettuosamente limitandosi a notare che Modesto ha perso ancora una volta l’incisivo: «Com’è successo?». Lui, rosso in viso, continua a sorriderle.

Vanno a tavola. Al centro c’è una zuppiera con la pastasciutta. Aurora riempie i piatti, Modesto allunga il braccio e accende il televisore. Mangiano senza dirsi niente. Ruska Jorjolani conclude così il suo singolare romanzo: «Seguì una musichetta e si mise a parlare il conduttore. D’un tratto la trasmissione fu interrotta da uno sfondo nero. Sulla superficie convessa dello schermo si videro riflessi, minuscoli e dilatati, loro due che erano seduti al tavolo. Avevano smesso di mangiare e guardavano nella stessa direzione. Durò un secondo. Subito dopo ricomparve l’immagine del pubblico che sorrideva e batteva le mani». Avanziamo un’osservazione: bisognerebbe porre più attenzione al serbatoio letterario dell’Europa dell’Est. Così come facemmo con l’America latina di Marquez, Vargas Llosa, Cortazar e molti altri.

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